Questa settimana ha visto trascorrere il World Food Day, giornata mondiale dell’alimentazione. Assieme ad ambiente ed energia, il tema del cibo è quello su cui il futuro dell’umanità dovrà confrontarsi, con sfide che coinvolgono anche la cultura, l’economia, la socialità, l’impegno civile.
C’è una crescente realtà gioiosa attorno al cibo, alla quale si dedicano sempre più spesso anche librerie e canali televisivi: master chef di qua, prova del cuoco di là, la cucina spiegata ai poveri di spirito da chiunque diventa titolato a mettere una pentola su un fornello.
Visto in TV, ovvio che poi ci si sente anche meno imbarazzati ad andare a comprare il preziosissimo ingrediente XYZ in una gastrogioielleria che accetta tutte le carte di credito del pianeta e anche le altre.
C’è però un’altra realtà, che purtroppo non conosce i riflettori della foodmania. In pochi nel mondo sovrappeso ricordano che quasi un miliardo di persone è in denutrizione cronica nonostante l’indice dei prezzi all’ingrosso segni un calo costante da 24 mesi (fonte: FAO).
Non basta: ci sono da mettere in conto anche 1,3 milioni di tonnellate di prodotti inutilizzati o mandati allo smaltimento in un anno senza aver neanche sfiorato una tavola.
Traducendolo in camion possiamo immaginarlo come una fila lunga 13 volte l’equatore. Ci penso ogni volta che un cameriere o i commensali mi guardano strano perché chiedo di portarmi a casa gli avanzi della mia tavolata.
Vorrei solo del tempo per spiegare loro perché lo faccio, magari dopo mi considererebbero un po’ meno pezzente e chiederebbero anche loro una doggy bag. All’estero è prassi portare via schifezze, noi perché dovremmo avanzare cose buone?