Fin da quando l’uomo ha potuto esprimersi con la scrittura, l’albero simboleggia l’unione tra la terra e il cielo, tra il materiale e l’immateriale, tra il corpo e l’anima. Il mondo vegetale è l’elemento di contatto tra noi, organismi complessi e il mondo minerale, dal quale non possiamo trarre direttamente nutrimento. Per produrre una bara oggi si abbatte un albero ad alto fusto, spesso di essenze pregiate, quindi a lento accrescimento. E’ l’oggetto con il più breve ciclo di vita (è il caso di dirlo) prodotto dalla nostra società, ne consegue il più alto impatto ambientale (la crescita di un albero richiede dai 10 ai 40 anni, a fronte di tre giorni di fruibilità del prodotto!). Capsula Mundi è prodotta con materiale biodegradabile al 100% e realizzato da “plastica” di amido (l’amido si ricava da piante con ricrescita stagionale, quali patate e mais). Capsula Mundi risparmia la vita di un albero e anzi, propone di piantarne uno in più. Un albero accanto all’altro, di essenze diverse a creare un bosco, magari lì dove un bosco è scomparso. Un luogo in cui i bambini potranno andare ad imparare a riconoscere i diversi tipi di alberi (educazione ambientale) oppure in cui recarsi per una passeggiata e ricordarsi di persone che non ci sono più. Un bosco che godrà il rispetto della popolazione e sarà anzi protetto da possibili scempi, grazie al coinvolgimento emotivo di tutta la collettività.
Vi piacciono le parole di Gibran e per voi un bosco non è un ammasso di alberi? Se pensate di aver già letto qualcosa di simile, non vi sbagliate. L’urna biodegradabile per le ceneri che, contenendo dei semi, può generare un albero ha riscosso un certo interesse.
Ora, correndo il rischio di passare per necroforo, segnalo un progetto arrivato alla mia pagina facebook dopo la pubblicazione in questione: un lettore, che ringrazio, mi ha segnalato il progetto Capsula Mundi, il primo progetto italiano di sepoltura naturale.
Due designer italiani, Anna Citelli e Raoul Bretzel, qualche anno fa hanno ideato una capsula biodegradabile in plastica di amido che, opportunamente collocata nel terreno con all’interno il corpo del defunto, diventa una fonte di risorse per gli alberi in crescita. Non si sono limitati al contenitore, ma ne hanno anche immaginato la collocazione. Riunirne un po’ e farne delle riserve. Il progetto è chiaro: basta cimiteri in spigoli di marmo e ben vengano boschi della memoria. La filosofia alla base è quella per cui l’uomo non appartiene solamente alla razza umana, ma alla vita del pianeta nella sua complessità e per questo deve rimanere nel ciclo della trasformazione. Cito dal progetto.
Bellissima la parte del sito dedicata alla scelta del tipo di albero. Fateci un giro, scoprirete qualcosa che magari vi manca sugli alberi. Ad esempio, narra la leggenda che sulla tomba di Adamo, sul monte Tabor, nacque la pianta di ulivo il cui seme proveniva dal paradiso terrestre. Il mio fratello d’anima Alessio, racconta ogni tanto del suo bosco d’ulivi nella valle del Tevere. Da lì la vista spazia tra le colline umbre e l’appennino. Non mi dispiacerebbe immaginarmi lì, un giorno.
Citando Gibran e il suo “Gli alberi sono liriche che la terra scrive sul cielo” (da Sabbia e Spuma, 1926) o, se preferite, Diego Cugia con “Non terrorizzate i vostri bambini con la vita eterna. Ditegli che da morti si diventa alberi. I grandi alberghi degli uccelli.” (da Jack Folla. Alcatraz, 2000), questo è davvero un altro modo di vedere oltre la barriera della vita come la intendiamo. E non crediate che sia contro i principi della religione, perché aver dato le proprie ultime risorse corporee per generare una nuova vita non è contro nessuna legge, divina, umana o scientifica.
Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.