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Data: Campagna 2016
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Il Trentino a prezzi che non ti aspetti
Vicopisano invita a fotografare i centri più antichi d’Italia: Il secolo buio s’illumina sui social
Questo articolo è pubblicato anche su “Il Corriere della Sera“
Alzi la spada chi non è mai caduto nella tentazione di frequentare una delle feste medievali che arricchiscono il folclore del Bel Paese. Coi loro stendardi a colorare il cielo e le lanterne a rischiarare muri e pietre, molti paesi italiani azionano una macchina del tempo per tornare all’epoca di giocolieri, indovini, dame e messeri. E tanto meglio se tra un’attrazione e l’altra c’è spazio per le bancarelle e sosta nelle taverne. Sembra che quasi non ci sia posto per il contemporaneo in questi eventi, segnaletica coperta, antenne occultate, automobili bandite. Si può perfino fare a meno del telefonino per una sera. Finché qualcuno non ha avuto un lampo di genio. Se le fiere di paese erano nel Medioevo l’evento più social che si potesse immaginare, nell’era dell’Internet tascabile perché non promuovere un trofeo tra i social contemporanei e chiedere agli igers (i fan del social fotografico Instagram) di misurarsi sul tema dei borghi e dei castelli?
L’idea l’hanno avuta a Vicopisano, provincia di Pisa, 8.500 abitanti radunati ai piedi della magnifica rocca progettata dal Brunelleschi. Il sindaco Juri Taglioli, classe 1969, ha coinvolto gli igers pisani Giovanni Borsari e Nicola Carmignani per diffondere la sfida fotografica. «L’idea del challenge non è del tutto nuova — dichiara Carmignani —, su Instagram le community aiutano a promuovere eventi, grazie alle sfide fotografiche su un tema specifico. Data la Festa Medievale e il borgo di Vicopisano, è stato scelto come tema l’unione delle due cose». «Con gli igers pisani, toscani e italiani — aggiunge Borsari — facciamo molte attività di questo genere ma sono anche organizzati dei veri e propri instameet dove un gruppo di persone appassionate di mobile photography si radunano per passare una giornata insieme per visitare un luogo, un edificio o scoprire qualcosa di curioso, non accessibile diversamente». «In generale troviamo un buon riscontro in questo genere di attività attraverso la condivisione delle fotografie in rete — continua Carmignani —. Dietro le community locali ci sono quasi sempre professionisti che si occupano di comunicazione online o web marketing».
Ne è nato così il challenge #Vicopisanomedievale: per una settimana gli iscritti al social hanno potuto celebrare la medievalità tricolore postando immagini sul tema «borghi e castelli» di tutta la penisola. Per la cronaca, ha vinto uno scatto di San Severino Marche. Quello che più sorprende, però, rimane l’abbinamento tra il medioevo genuino e una delle app di maggior successo. Non è un ossimoro? «Vicopisano era la porta di accesso alla Repubblica pisana — dichiara il sindaco Taglioli, alla Festa Medievale rigorosamente in abito a tema — e fin dall’epoca dei castelli era definita un gioiello. Ci siamo chiesti come potevamo diffondere il più possibile questa bellezza così piena e intatta e la risposta è venuta dai Social. Il gruppo Instagramers di Pisa è molto attivo nella valorizzazione del nostro territorio, abbiamo affidato a loro l’organizzazione di un contest fotografico nazionale che valorizzasse le meraviglie dell’età di mezzo del nostro borgo e dei tanti altri italiani che condividono il nostro stesso glorioso passato». Nel dedalo di viuzze all’ombra della rocca si respirava davvero aria d’altri tempi. Forse stonavano certe bancarelle col registratore di cassa ma hanno impressionato l’affluenza del pubblico, buona parte in costume, e la partecipazione attivissima degli stessi abitanti, genuini animatori riuniti nell’Associazione Festa Medievale. Così, oltre diecimila visitatori hanno decretato il successo della manifestazione e smontato l’ossimoro con passione.
Passione che non ha mancato di coinvolgere i sapori, con la cena medievale all’ingresso della rocca. Saranno anche stati i secoli bui, ma su Instagram e alla festa, il medioevo 2.0 è stato un tripudio di colori e sapori. Al contest sono pervenuti circa duecento scatti raffiguranti borghi del Centro e del Nord, poi gli igers hanno più che raddoppiato i post concentrandosi su Vicopisano. Che questa sia anche una via per rilanciare il turismo? Nessuna pretesa di fare miracoli, ma se pensiamo che in certe aree italiane i borghi languono o vivono l’abbandono, forse iniziative come questa potrebbero essere un aiuto per stimolare la curiosità e rilanciare il territorio. Ben vengano, dunque, le attenzioni che riescono a fermare il degrado. Dopotutto ci hanno sempre insegnato che una bella immagine richiama più di mille parole, così il social socialmente utile potrebbe non essere solo un gioco di parole. #VicopisanoMedievale per credere.
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Festa Medievale Vicopisano
Un popolo perso tra i due mari, il Salento misterioso sulle tracce degli antichi Messapi
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L’alba è solo una striscia lattiginosa in cui galleggia una palla infuocata. Al di qua del mare, sotto un cielo cobalto, le mura della città si colorano appena la luce inizia a gocciolare disegnando i blocchi in pietra che circondano la porta sotto l’occhio delle sentinelle. Dal porto stanno già salendo i pescatori con le casse ancora guizzanti. Nelle vie, il brusio del mercato e le ruote dei carri dicono che i contadini sono già arrivati per vendere la fatica dei loro campi. La scena è di nove secoli fa, la terra è l’estremità sud-orientale della Puglia e il popolo è quello dei Messapi. Non provo neanche a ricordarli dal libro di storia. Non ce la farei a collocarli nella geografia di quelle genti che, pur destinate ad essere assorbite nel territorio di Roma, hanno lasciato tante e tali tracce da richiamare studiosi da tutto il mondo e far appassionare i dilettanti dell’archeologia come me. C’è un fatto che però sorprende tutti. Questa terra è bella oggi come allora.
Castro è un nido di tufo sulla cima di un promontorio che affonda le radici nel blu dell’Adriatico. Per congedarsi dal corridoio blu iniziato nella lontana Venezia, ci incanta con i riflessi magici delle grotte di cui la Zinzulusa è solo la più famosa. Raggiungibile anche col mare mosso grazie a una scalinata, l’ingresso nella terra ha un che di sacrale, come se il rumore delle onde fosse lo spunto per ricordare che in questa parte dell’Italia, la distinzione tra terra è acqua è solo una formalità. Il suo nome deriva dalle numerose stalattiti e stalagmiti che nel dialetto locale sono chiamate «zinzuli», ovvero stracci. La porta che immaginiamo baciata dal sole di un mattino antico non si vede dall’ingresso della grotta, bisogna uscire e aguzzare la vista nella scorpacciata di verdi della vegetazione. I colossali massi perfettamente incastrati fanno pensare alle civiltà megalitiche di certe isole greche, Micene su tutte.
Il picchiettio degli studiosi al lavoro è solo la scusa per infilarsi tra le vie e scoprire, tra gli scorci, quel panorama che con un colpo d’occhio attraversa il mare fino all’Albania. Forse è da lì che sono arrivati i Messapi, popolo di origini illiriche. Il dubbio è d’obbligo perché, in quel meraviglioso melting pot che è il Mediterraneo, la loro origine non ha una precisa collocazione. Il toponimo Messapia fu probabilmente coniato per la prima volta dagli storici greci col significato di «terra tra i due mari » e ben si sposa con quel Salento che è davvero un ponte di olivi e vigne gettato nel blu.
Vaste è l’antica Basta di cui si rinvengono notizie nelle opere di Plinio. È uno dei siti più interessanti per la quantità e la qualità dei reperti che gli scavi hanno restituito al sole di questa terra meravigliosa. Parecchi anni di studio e molte campagne di scavo dell’Università di Lecce hanno permesso di delineare il mondo messapico pur con l’alone di mistero che lo circonda, a partire dalla complessa decifrazione di una lingua la cui pronuncia è ancora ignota. È ben chiaro che qui c’erano città grandi e ben fortificate.
Salendo sul balcone panoramico del Parco del Guerriero, nella frazione di Poggiardo, i 77 ettari dell’insediamento si leggono nelle tracce del doppio muro di pietre che conteneva il terrapieno all’epoca del massimo sviluppo, ipotizzato nel IV sec. a.C. Qui si trova anche una riproduzione dell’ingresso dell’ipogeo delle Cariatidi, ritrovato in quella che era l’area funeraria e oggi centro storico dell’abitato. Le statue originali sono al museo Castromediano di Lecce e al museo Nazionale di Taranto, ma il cinquecentesco Palazzo Baronale affacciato sulla piazza ben rappresenta esempi del tipo di reperti ritrovati nell’area. Stesse imponenti dimensioni si ritrovano anche se si procede in direzione di Lecce. Il capoluogo del Salento che conosciamo per lo splendore barocco, è città messapica. Per rendersene conto basta avvicinare il museo della città, non prima di aver però sostato a Cavallino.
C’è qui un museo diffuso che ripropone una passeggiata difficile da ripetere altrove. Incamminandosi sui tracciati si arriva alle estremità dell’antico abitato. Circondati dall’erba alta, ci si perde nel tempo scoprendo che le porte della cinta muraria hanno ancora lo scavo del passaggio delle ruote dei carri, mentre i pilastri rivelano la presenza lontana dei cardini. Il vento della piana che porta il profumo di terra e cielo pulito appiattisce gli steli ma non alza il sipario sulla contaminazione contemporanea. Il significato profondo del popolo messapico però sta più a sud. Sulla strada per Leuca c’è Tricase, il centro più grande del Capo di Leuca e uno dei più popolosi del Salento. Qui il medioevo è stato una catena di passaggi di feudo che ha lasciato un centro storico d’incanto che le guide turistiche spesso trascurano. Sedersi sul sagrato della chiesa in piazza Pisanelli e ascoltare le rondini è un inno alla vita. Non distante, in direzione del mare c’è la Quercia Vallonea.
Nell’Italia che spesso dimentica i monumenti con radici e rami, questo albero ha sette secoli e una chioma che, si dice, fu in grado di ombreggiare cento cavalieri. Arrivati a Santa Maria di Leuca, la spianata tra il santuario e il faro è un messaggio. La terra finisce, il Bel Paese è tutto alle mie spalle e non riesco a non pensare a un unico meraviglioso sentiero che inizia a Vipiteno e finisce su queste scogliere dove nidificano i gabbiani. Così mi rendo conto di cosa erano i messapi ieri e cosa siamo noi oggi. Ci piaccia o no, custodi di una porta tra le civiltà che i salentini sanno aprire per farsi trovare a braccia aperte. Tutto qui, davvero tutto, ha il sapore di un ritorno a casa.
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Messner: «Le mie montagne senza ghiaccio»
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Una mostra fotografica registra il ritiro eccezionale delle masse bianche
L’alpinista: «Crolli continui, trasformazioni drammatiche. L’uomo non deve insediarsi dove ci sono le sorgenti»
«Senz’acqua la montagna crolla». Il più grande alpinista vivente, oggi anche collezionista d’arte e contadino, ma soprattutto teorico di una nuova ecologia, apre, nel suo museo più vasto, il castello di Firmiano che domina la conca di Bolzano e si confronta a distanza con il maestoso Scilliar, un’inusuale galleria fotografica sui ghiacciai per lanciare un messaggio forte. «Sparisce il ghiaccio, si sgretolano le montagne. È l’acqua allo stato solido che tiene ferme le pareti di roccia. Se si scioglie, noi perdiamo qualcosa. Quando ero piccolo cadevano solo piccoli pezzi ogni tanto, oggi si staccano pietre ogni settimana e talvolta crollano rocce come grattacieli».
CAMBIAMENTI – Messner ha le idee ben chiare su come stanno cambiando le cose e su cosa dovremmo fare per evitare il peggio. «Le Dolomiti erano definite da Le Corbusier le costruzioni più belle del mondo, nate nel mare come coralli. In 50 milioni di anni sono cambiate un po’ le forme, però il verde dei cirmoli, le malghe e poi la verticalità delle rocce sono sempre una combinazione unica». Un suo ritratto esposto in un altro castello, quello di Brunico, mostra capelli e barba fluenti che si fondono nella montagna e che ti immagini fatti apposta per essere mossi dal vento dell’Himalaya. Lo sguardo è fermo e convinto, reso ancora più autorevole dalle ciglia così folte da farlo sembrare forte come gli alberi le cui chiome sono temprate dai venti che sferzano le vette.
RACCONTARE LA MONTAGNA – In questi anni ha aperto cinque musei per raccontare la Montagna. Lontano dal dimostrare i suoi 69 anni, gli occhi che spuntano da quel pelo sono un vispo concentrato delle immagini che hanno ammirato nei cinque continenti. Vette, popoli, deserti e ghiaccio, tanto ghiaccio (compreso quello dell’Antartide), acqua allo stato solido che per lui è talmente importante da averci dedicato una delle tappe del suo percorso museale. A Solda, ai piedi dell’Ortles, un edificio invisibile dall’esterno ospita una collezione di dipinti e cimeli dove l’acqua e il ghiaccio sono protagonisti. «Non potevo portare la gente in vetta, così ho fatto un museo dove il ghiaccio si vede, raffigurato nei quadri e in tutta la sua magnificenza dall’unica apertura ricavata sul tetto». Un taglio che sembra un crepaccio lascia intravedere la vetta dell’Ortles, «la montagna cade e noi qui la sentiamo». Si riferisce al recente crollo della croce sulla vetta, sgretolatasi per la fusione del permafrost.
La mostra appena aperta al castello di Firmiano nell’area delle esposizioni temporanee racconta per immagini il ritiro dei ghiacciai. «Se la tendenza continuerà», sostiene l’alpinista, «gli ecosistemi alpini d’alta quota ne risentiranno in modo drammatico». Eppure nelle sue parole non c’è l’ansia dell’allarmismo. «Lasciamo agli scienziati il giudizio su quanto sta accadendo. La terra si è sempre modificata e io mi rendo conto che sto assistendo a una trasformazione straordinaria».
MANAGER – Reinhold Messner non è più solo uno sportivo. Ormai è anche il manager dei suoi musei ma soprattutto il contadino che attorno al suo castello di Juval coltiva viti da vino e gestisce un’azienda agricola modello con un ristorante a chilometro zero. «Mi sono reso conto che l’acqua è la chiave delle attività in montagna, è la vita. Un maso non può sopravvivere senza acqua, a Juval un acquedotto rifornisce il castello da 400 anni. Se il ghiacciaio della val Senales si fonde, sono finito…».
MESSAGGIO – Il messaggio che l’alpinista lancia è soprattutto una presa di coscienza. «Quando andavamo a scalare, noi sulle Alpi non portavamo neanche la borraccia. Sugli Ottomila avevamo solo il fornello per sciogliere la neve, perché se vai in montagna sai che l’acqua è tutto. L’uomo deve rispettare l’acqua perché da lì viene la vita. Non deve costruire dove si forma e non deve contaminare». Con il pragmatismo della gente di montagna, Messner traccia una linea di confine precisa e invalicabile: oltre i duemila metri non bisognerebbe stabilire alcuna attività. «Alla base di tutto c’è il rispetto per la cultura contadina», precisa Messner. «Nei miei musei ho parlato dei popoli del mondo. Per le Alpi ho coinvolto la mia gente, i sudtirolesi, e i Walser. Essere Walser significa ricordarci delle tradizioni e rispettare l’ambiente, a partire proprio dall’acqua. I problemi che abbiamo con le Alpi sono parecchi. Molti dalla città vorrebbero usarle solo per passare il weekend. Altri sognano le Alpi di Heidi. Io mi batto per la realtà. Abbiamo una responsabilità, il diritto di tutelare e anche sfruttare le Alpi dove l’uomo ha sempre lavorato. Se il turismo ci porta i mezzi per sopravvivere è giusto approfittarne. L’allacciamento tra turismo e agricoltura è la base per l’economia di montagna, però oltre una certa quota, dove c’è il ghiacciaio, dove l’acqua si forma, l’uomo non deve insediarsi».
GUARDARE IL PAESAGGIO – Gli allestimenti dei musei rivelano un’estetica che oscilla tra minimalismo ed esaltazione per la materia: ferro grezzo per le strutture, pietra sulle mura e i quadri che si stagliano come chiazze di colore. Mentre passeggia di fronte alle tele invita a guardare un paesaggio alpino sul confine tra il pascolo smeraldo, la roccia rugginosa e il ghiaccio perlato. Quella mano che ha impugnato una piccozza su tutte le vette più alte del pianeta vuole ora accarezzare i colori.
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Gayart nel cuore delle Dolomiti segrete
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La Val Fiscalina nel Südtirol è un piccolo solco tra pareti di roccia alle spalle delle Dolomiti di Sesto Pusteria. Un minuscolo mondo immerso nella quiete della natura. In inverno si ascoltano i tonfi della neve che cade dai rami, in estate il suono delle cascate
Le Dolomiti da cartolina sono quelle che tutti conoscono e fotografano. Sono, purtroppo, le Dolomiti che sopportano il traffico e il congestionamento, quelle che forse, un giorno, chiuderemo alle auto per lasciarle solo ai mezzi pubblici. Poi ci sono le Dolomiti più nascoste, quelle in cui ti sembra di essere stato catapultato in un angolino di Canada e dove a un certo punto incappi in una baita dove due uomini dipinti ti raccontano di storie e tradizioni che passano anche da Harrer, il protagonista di Sette anni in Tibet. Ecco, queste sono le dolomiti che amo.
Val Fiscalina, quiete assoluta
Siamo in Val Fiscalina, potreste aver difficoltà a trovarla sulla mappa perché e solo un piccolo solco tra pareti di roccia alle spalle delle Dolomiti di Sesto Pusteria, in Alto Adige – Südtirol. Che si vada in pieno inverno ad ascoltare i tonfi della neve che cade dai rami o in estate quando le cascate diffondono la loro eco tra le cenge, il quadretto è quello di un posto isolato e immerso nella quiete assoluta.
La coltre dei pini all’ingresso della vallata si para a chi arriva come fosse un esercito verde. Le creste sullo sfondo sono aguzze e formano un circo curvo al punto giusto da sembrare una cornice che nasconde qualcosa. Non ci sono impianti di risalita ma solo una pista battuta con a fianco l’anello per lo sci da fondo.
Sci alpinismo ma anche salutari passeggiate
Chi pratica lo sci alpinismo può inerpicarsi verso il passo, meglio se accompagnato da una guida, mentre chiunque può invece fare una ciaspolata sull’altopiano che sovrasta Moso. Gli impianti più vicini per lo sci da discesa sono quelli in paese.
Naturalmente si può anche solo staccare la spina e basta, limitandosi magari a camminare e ossigenarsi sul percorso completamente pianeggiante che inizia alla fine della strada.
Il distacco è netto, nell’ultimo parcheggio delle auto finisce il XXI secolo e ci si cala nel silenzio. Sembra incredibile eppure è quello che succede qui dove l’ultima casa della valle è la stazione di posta ora trasformata in un delizioso chalet albergo, friendly per chiunque della montagna cerca l’autentico.
Arte popolare e opere dell’artista Albert Stoltz
Autentica come la decorazione dei due selvaggi di cui si raccontava disegnati sulla baita vicino al torrente. Sembrano usciti davvero da un libro di gaycomics appena pubblicato ma risalgono agli inizi del ‘900. Sono disegni di Albert Stoltz, un artista che con i fratelli Ignaz e Rudolf ha lasciato molte opere sulle facciate dell’Alto Adige. All’imbocco della nostra vallata, in località Moso, c’è un museo dedicato al fratello Rudolf che ospita anche opere degli altri membri della famiglia. Albert in particolare divenne famoso come pittore di guerra impegnato sul fronte italo austriaco e le sue opere ci mostrano uno spaccato di vita bellica, con i soldati che combattono coperti di loden tra i ghiacciai in inverno e che lavorano a torso nudo in estate per scavare trincee. La contemporaneità del tratto del disegno rende questo museo fruibile a chiunque sia appassionato di arte popolare. Non da meno è l’impatto delle figure sul muro del vicino cimitero o della via crucis all’interno della chiesa, originale non solo per il tratto ma perché dipinta tutta in toni di blu. Museo e valle sono raggiungibile con una camminata pianeggiate di circa un’ora, è impossibile perdersi grazie allo sterrato che costeggia il fiume.
Heinrich Harrer, avventuriero e alpinista
A proposito di camminate, una curiosità non a tutti nota riguarda il personaggio di Heinrich Harrer. Lo conosciamo per aver scritto Sette anni in Tibet e lo immaginiamo con la faccia di Brad Pitt che ne interpretò il ruolo nella trasposizione cinematografica.
Avventuriero e ottimo alpinista, fu maestro di sci ospite per molte stagioni della famiglia che ancora oggi gestisce l’Alte Post al termine della strada. La vecchia stazione di posta è stata infatti sapientemente recuperata e oggi è un romantico nido che accoglie coppie in cerca del paesaggio romantico assoluto o single in ricarica creativa. Cito entrambe le categorie volutamente in quanto parte in causa.
Galleggiare sotto le stelle
La spa è alimentata con l’acqua di sorgente, offre la sauna al legno aromatico e i massaggi al tampone di erbe alpine. La piscina riscaldata affacciata al bosco ha una parte all’aperto dove si può galleggiare sotto le stelle. Il ristorante è all’altezza del luogo e delle tradizioni locali attente agli ingredienti a chilometro zero, con i formaggi del contadino e le verdure stagionali dell’orto. C’è un elemento in più che mi piace considerare in un posto così: l’attenzione ecologica che mettono nella gestione si combina con la possibilità di raggiungere la località con i mezzi pubblici combinando il treno fino a Sesto Val Pusteria e poi l’autobus che attraversa Moso e raggiunge la valle, come dire che qui la macchina è davvero superflua. In Alto Adige, tra l’altro, grazie alla Mobil Card, si può viaggiare da uno e sei giorni su ogni mezzo pubblico.
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