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Good news per il 2017 della Terra

Le good news per la Terra non dovrebbero mai mancare. Anziché dieci all’anno, ce ne vorrebbero dieci di una certa portata ogni giorno. E probabilmente non basterebbero a compensare i disastri, ambientali e non, che produciamo quotidianamente, soprattutto nelle aree dove le priorità sono altre (vedere alle voci “pace” e “fame”).

Convinto però che le buone notizie siano contagiose, ecco qualche pillolina verde che dovrebbe farci strizzare l’occhio al 2017 con un po’ di ottimismo.

  1. Le emissioni di anidride carbonica non sono aumentate per il terzo anno consecutivo. Gli studiosi del Global Carbon Project – un gruppo di scienziati che misura le emissioni di CO2 in atmosfera – hanno confermato che piante, terre e acque hanno compensato il gas emesso dall’attività umana. Non un vero e proprio invito a respirare in città a pieni polmoni ma una conferma che lasciare la macchina in garage e piantare alberi serve.
  2. Barack Obama e il suo omologo canadese Trodeau sono riusciti a imporre limiti restrittivi alla ricerca e allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas sulle coste atlantiche e artiche. Trump era già stato eletto con le sue affermazioni stile “non esiste un problema climatico” ma il presidente uscente è riuscito a piantare qualche cartello off limits sulle aree sensibili. Trump e suoi hanno quattro anni per scoprirli.
  3. La grid parity per il fotovoltaico – energia prodotta dal solare allo stesso prezzo dell’energia generata dalle fonti fossili – è sempre più vicina. Secondo il centro studi della Deutsche Bank il risultato potrebbe essere conseguito già entro i prossimi due anni. Tra i fattori determinanti per il raggiungimento figurano l’aumento dei prezzi dell’elettricità generata dalle fonti convenzionali e i costi del solare in continuo calo. Se lo dicono i tedeschi che l’astro vicino lo vedono spesso solo in cartolina, noi che siamo il paese del sole dovremmo crederci di più. Pannelli alla mano, gente!
  4. Il traffico sulle nostre strade si conferma in diminuzione. Il rapporto Traffic Scorecard 2016 della Inrix, azienda specializzata nell’analisi dei dati sulla mobilità, ha preso in esame i livelli di congestionamento di 96 città europee classificando l’Italia al decimo posto, con Milano in testa ai luoghi più intasati. Guardiamola così: prima eravamo messi peggio, ma possiamo migliorare e i dati sono un incoraggiamento.
  5. Per il traffico, infatti, non si fa mai abbastanza e per vedere come è andata nel 2016 non ci resta che aspettare. Nell’attesa, pedaliamo, magari incoraggiati dai dati di vendita delle bici a pedalata assistita, ottime per muoversi nel traffico senza arrivare grondanti di sudore agli appuntamenti. L’aumento della produzione di questi gioielli meccanici è del 90,36%, con le esportazioni volate al +166,9%.
  6. E al volo si ispirano quasi le velocità dei treni che da dicembre sfrecciano nel nuovissimo tunnel del San Gottardo. Con una estensione di 57 km, permette a persone e merci di muoversi tra il nord e il sud delle Alpi con molta più agilità che in precedenza, risparmiando traffico ed emissioni ad un ambiente (quello di montagna) spesso massacrato da colonne di camion e auto.
  7. Anche alle Eolie sono arrivati i fenicotteri rosa. Dopo le segnalazioni del 2015 tra Sicilia, Sardegna e Puglia, anche a Lipari il blu si è tinto di rosa per il ritorno di grandi volatili sulla rotta migratoria. Contestualmente, la buona notizia si estende alla reintroduzione in ambiente degli esemplari che hanno richiesto attenzioni mediche.
  8. Dopo il piombo (dei fucili) il peggior nemico degli uccelli è l’olio di sintesi che intacca il piumaggio. Il delta del Po è una delle aree più a rischio e il sistema industriale della Lombardia il maggior contribuente di acque reflue da impianti e scarichi. La good news è che la stessa regione ha stabilito il record del riciclo degli olii esausti. Intendiamoci: riciclare l’olio è un obbligo, ma da qui a stabilire un record è comunque un buon segnale, anche sulla via del recupero e del riuso. Sul piano nazionale il Consorzio Obbligatorio che coordina l’attività di 74 aziende private di conferimento e di 4 impianti di rigenerazione ha raccolto nel 2015 in tutta Italia 167.000 tonnellate di olio lubrificante usato, un dato considerato vicino al 100% del potenziale raccoglibile.
  9. Il consumo di carne è ai minimi storici sulle tavole italiane. Se teniamo conto che bistecche e hamburger non si materializzano sui banchi dei supermercati ma sono spesso il risultato di una catena di sfruttamento intensivo del territorio oltre che del bestiame costretto a spazi di vita ristretti e condizioni di trasporto imbarazzanti, il calo è una buona notizia. Da prima, la carne è passata a essere la seconda voce del budget alimentare delle famiglie italiane dopo frutta e verdura. La spesa relativa alla bistecca è scesa a 97 euro al mese, mentre l’incidenza è del 22% sul totale. Non consumare (troppa) carne è un segno di civiltà.
  10. Il rispetto, coerentemente, si estende anche alle vacanze. Gli italiani apprezzano sempre di più la vacanza verde e rispettosa delle comunità locali. Secondo i dati di Ipr Marketing presentati alla Borsa del Turismo 2016 di Milano, la sostenibilità della destinazione e della vacanza scelta è un requisito che fa la differenza e quindi è una leva per rendere un’esperienza di viaggio di qualità, gratificante e completa. La conferma arriva dal fatto che quasi la metà degli italiani è disposta a pagare di più per le vacanze sostenibili.

Nota: molti dei dati citati si riferiscono a rilevamenti del 2015 ma sono stati presi in considerazione in quanto divulgati nel corso del 2016. Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Un libro, se vi va, per capire la natura

Tra un libro e l’altro, al Pisa Book Festival 2016 non sono mancati i colori del paesaggio tra racconti di mare, storie di montagna e sguardi alla campagna espressamente rivolti ai bambini. Tra le tante promesse prereferendarie, almeno la letteratura ci lascia qualche certezza.

Mauro Corona racconta il suo nuovo romanzo La via del sole allontanandosi dai canoni per i quali lo conosciamo. Un giovane ingegnere ha tutto dalla vita, ma non basta. Nessuno è tanto annoiato quanto un ricco, sostiene lo scrittore citando il poeta Brodskij. Così il protagonista rinuncia al superfluo per ritirarsi su una montagna e scoprire che non tutto si può comprare.

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Corona invita a liberarsi dal superfluo per concentrarsi sull’essenziale. È un libro – afferma l’autore – nato per autocritica in una giornata dalla luce pallida dello scorso gennaio. Ha inseguito il sole per un giorno e quando è tramontato ne voleva ancora, di più. Non gli bastava nonostante le ore precedenti. La lezione è per quando ci sentiamo drogati dal non accontentarci, esattamente come quando facciamo il gioco dei signori del marketing che ci vogliono in overdose di oggetti e non riusciamo a fermarci dal volerne di nuovi.

Avete presente le file per l’ultimo cellulare appena uscito? Ecco! È questa fame che ci fa provocare disastri e spesso ci rende infelici. Il rampollo protagonista scopre che, una volta tra i monti dove finalmente può dedicarsi – senza preoccupazioni – unicamente alla contemplazione della palla infuocata che attraversa il cielo, le ore di luce a sua disposizione non gli bastano più e inizia a far abbattere le montagne che gli fanno ombra. Lezione durissima da uno scrittore che arriva da una valle, quella del Vajont, dove una società energivora e cieca si è macchiata del delitto di 2000 persone.

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Björn Larsson è il papà della bellissima storia del pirata Long John Silver. Nell’intervista ci lancia anche uno scoop made in Napoli. Se lo abbiamo amato nei racconti del fuorilegge che, ritiratosi tra le baie del Madagascar, traccia un bilancio della sua vita, se ci ha incantato con il capitolo aggiuntivo, ora l’autore torna ad affascinarci con una raccolta dedicata al mare attraverso le parole di Conrad, Maupassant, Cristoforo Colombo e molti altri.

Larsson conosce molto bene la materia, e non solo perché vive buona parte del suo tempo su una barca a vela. In Raccontare il mare usa tutta la capacità di romanziere e di fine paesaggista per tracciare quella cornice dell’anima che il regno di Nettuno rappresenta per ognuno di noi. Se amate le grandi distese blu, il rumore delle onde e i battiti d’ala dei gabbiani sopra di voi, questo è un saggio da non perdere. Magari in abbinata a Long John, casomai non lo aveste ancora letto. O vi andasse di riscoprirlo.

C’è un’appendice campagnola dedicata all’infanzia che ho apprezzato nel panorama del Book Festival. Lo spaventagente è una fiaba scritta da Davide Mazzocco e illustrata da Paula Dias con immagini dal sapore di bozzetto cinematografico che fanno di ogni tavola un quadro.

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Con i punti di vista di un corvo e la narrazione in rima, il tema della guerra tra gli spazi chiusi (del contadino) e quelli aperti senza confini (dei volatili) riveste un’attualità pazzesca. Ci vedo la volontà di chi alza barriere come se la natura si potesse fermare. La battaglia ha una sola soluzione sensata, però, come sempre: quella di non combatterla e avere il coraggio di fare un passo indietro. Se vi sembra che questa storia abbia il sapore di una lezione di umanità, non siete lontani. La confezione portagiochi fatta a tubo e riciclabile è un valore aggiunto per un’opera dedicata all’infanzia e non solo.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Terremoto: non è lui l’assassino

Il terremoto è visto come un qualcosa che l’Italia fatica a gestire tra protezione civile, amministratori e ricercatori.

A Milano si è inaugurata la mostra Terremoti: origini, storie e segreti dei movimenti della Terra. Sulla scia dell’esposizione dedicata ai vulcani che ha riscosso un grande successo lo scorso anno, il Museo di Scienze Naturali punta la lente su fenomeni affatto rari che danno modo di ascoltare scienziati e sfatare miti relativi ai movimenti – naturalissimi – della Terra. Ma andiamo con ordine affrontando qualcuna delle frasi che si sentono fioccare dopo eventi come quello che ha colpito Amatrice e che, sia chiaro, sono destinati a ripetersi.

I terremoti sono prevedibili con precisione nei luoghi. Falso! Ci sono le mappe di rischio utili per capire quali sono le aree dove è più probabile che avvenga un fenomeno sismico, ma nessuno potrà puntare con esattezza un dito sulla mappa e dire «qui!», questo a causa delle numerosissime variabili che possono intervenire dovute alle condizioni della crosta terrestre e alle sue discontinuità in quel punto e nelle aree limitrofe. A proposito di mappe, la mostra di Milano ne espone due della penisola, una addirittura risalente alla fine dell’800, affiancata a una tra le più recenti. Carlo Meletti, responsabile del Centro Pericolosità Sismica dell’INGV, ricorda che una mappa, per quanto importante, è una icona, un tassello che per diventare uno strumento di prevenzione deve coesistere con diverse competenze: conoscenza della sismologia, ingegneria infrastrutturale, amministrazioni che conoscano il territorio, protezione civile.

I terremoti sono prevedibili con precisione nel tempo. Falso! Ci sono strumenti che rilevano l’onda sismica in arrivo dal luogo in cui si è manifestata, ma è un preavviso di pochissimi secondi. Le rilevazioni e gli studi possono dare un’idea della frequenza dei fenomeni, ma si riferiscono al passato e non al futuro. Le stesse numerosissime variabili del punto precedente non permettono di conoscere con esattezza i tempi in cui un terremoto colpirà. Il geologo Marco Carlo Stoppato, curatore della mostra di Milano, ha radunato alcune macchine per i test meccanici dei campioni di roccia, ma chiarisce che i dati rilevati su un singolo campione di pochi centimetri sono solo una goccia nell’oceano degli elementi che possono intervenire a provocare un sisma.

I terremoti sono eventi rari nella storia dell’uomo. Falso! Secondo il National Earthquake Information Center del Servizio Geologico degli Stati Uniti, ogni anno al mondo si registrano circa 4 milioni di terremoti. Solo una piccola parte di essi è percepita, generalmente sopra i 2,5 gradi della scala Richter. In Italia se ne rilevano tra 1500 e 2300 superiori a questa entità. Domenico Piraina, direttore del Museo di Scienze Naturali di Milano afferma che, fin dall’antichità, l’evento sismico ha messo a nudo la fragilità dell’essere umano e la sua illusione di poter dominare gli elementi. Per questo non abbiamo ancora interiorizzato questa dinamica naturale della Terra e tendiamo a considerarla alla stregua di eventi catastrofici di carattere occasionale. La mostra illustra immagini tra le più drammatiche dei terremoti del passato, dai più lontani documentati con litografie fino ai più recenti filmati da smartphone. Un diorama racconta quello fortissimo di Messina e Reggio Calabria del 1908, 80000 morti (di cui 2000 provocati dal consequente tsunami) proprio in prossimità del punto in cui qualcuno vorrebbe costruire il ponte sullo Stretto.

L’Italia deve imparare molto sugli studi da Giappone e Stati Uniti. Falso! In Italia gli studi sono all’avanguardia, sia per quanto riguarda la sismologia che per quanto attiene la tecnica. Gli strumenti esposti nella mostra, oltre alla mappa storica del rischio sismico, rivelano che l’attenzione ai terremoti dei ricercatori italiani ha origine antiche. La sezione milanese dell’INGV (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) è oggi tra i centri di eccellenza mondiale, nato dall’ex-Istituto di Ricerca sul Rischio Sismico (IRRS) del CNR, che si occupava principalmente di indagine sismologica applicata alla valutazione della pericolosità sismica e del rischio sismico a varie scale, oltre che di indagine geofisica applicata allo studio della litosfera e delle sue parti superficiali. Una curiosità: il primo paese al mondo a prescrivere norme per le costruzioni antisismiche fu proprio il nostro, in conseguenza del disastro di Messina, che fu un disastro nel disastro anche per la lentezza dei soccorsi.

Non ci sono rimedi ai terremoti. Falso! Conoscere i rischi e ammetterne la possibilità è già un grado di conoscenza. Piccoli accorgimenti di pochi euro come i fissaggi dei mobili alle pareti e materiali edili paragonabili per spesa a quelli tradizionali ma rinforzati di fibra e capaci di trattenere muri e vetri dal frantumarsi fanno già la differenza. In Israele hanno brevettato un banco di scuola capace di proteggere gli scolari  da impatti di una tonnellata. In Giappone ogni studente ha un piccolo kit di sopravvivenza per resistere sotto le macerie in attesa dei soccorsi. Se dopo gli eventi sismici recenti ancora pensiamo di non aver bisogno di tutto questo, il problema non è il terremoto ma siamo noi.

In Italia ci manca la tecnologia antisismica. Falso! Nella mostra di Milano sono esposti materiali edili di avanguardia e una enorme boa anti-tsunami, prodotti 100% italiani. Un video dimostra l’attività dell’EUCENTRE di Pavia (European Centre for Training and Research in Earthquake Engineering), con piattaforme in grado di testare gli edifici fino a 9,5 gradi della scala Richter (il grado di terremoto più alto mai registrato, nel 1960 in Cile).

In Italia manca la fiducia. Vero! Ricercatori e tecnici andrebbero più ascoltati dai politici, raccomanda Graziano Ferrari, Responsabile dell’Unità Funzionale SISMOS – Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. Serve costruire un clima di fiducia. Nel nostro paese siamo troppo spesso su una linea tipo: dato il problema > trovata la soluzione > vedremo quando applicarla. E questo è il punto: applicare gli insegnamenti partiti da noi e che altri sono stati più bravi di noi a cogliere e applicare.

In Italia manca la cultura della prevenzione. Vero! Fa notare Meletti che sappiamo scegliere case originali per il design, curate nelle finiture estetiche, ad alta efficenza energetica, ma molto raramente ci preoccupiamo di quanto siano sicure informandoci e chiedendo spiegazioni sulla loro antisismicità.

Il terremoto non uccide. Crolli e negligenze sì. Vero! E’ un po’ la frase che riesce a dare la summa di tutti i punti precedenti. Da quando si è formata, la nostra Terra non è mai stata ferma. Possiamo scegliere di ignorare questo dato di fatto ed essere certi che ogni terremoto, tra pochi minuti o molti anni, sarà una tragedia. Oppure iniziare a informarci e lavorare sulla prevenzione. Fino al 30 aprile 2017, a colmare la lacuna ci sarà anche la mostra Terremoti a Milano.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

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La Cina e i vecchi dei nostri paesi di montagna

Ci siamo abituati a pensare alla Cina come a uno dei mostri inquinanti del pianeta. E non siamo troppo distanti dal vero. Basta guardare la classifica degli ammorbatori di Gaia per notare come il colosso dagli occhi a mandorla abbia una politica economica il cui costo è caro. Carissimo.

Si manifesta in sostanze tossiche emesse in ambiente – suolo e atmosfera – e in decessi. Se nel primo ambito gli effetti non sono facilmente misurabili nel breve periodo, con l’ulteriore difficoltà di capire come il danno si propaghi, i cinesi conoscono purtroppo molto bene il peso in vite umane. Le particelle note come PM2,5 che possono scatenare attacchi di cuore, ictus, cancro ai polmoni e asma uccidono silenziosamente 1,6 milioni di cittadini all’anno.

Azioni di compensazione

Il governo ha bisogno di mostrare che sta facendo qualcosa. Internamente a chi pone domande sui tassi di mortalità e fuori dai confini per dare almeno l’impressione di una presa di coscienza. La notizia è che c’è in corso un programma di riforestazione su un’area paragonabile alla superficie italiana tra il Brennero e Firenze con tutto quello che c’è di mezzo e intorno.

La nota ci arriva dalla Princeton University, che però non risparmia le critiche al modo in cui l’imponente operazione è messa in atto. Quando i numeri sono nell’ordine di grandezza dei milioni – siano esseri umani, fatturato, ettari di terra, litri di acque, scegliete voi ricordando quanto è grande la Cina – i ragionamenti vanno oltre l’esperimento per diventare un caso mondiale.

Il noto ateneo americano, dopo aver analizzato per due anni i programmi scientifici alla base del progetto, ha evidenziato un errore di fondo: i cinesi stavano puntando tutto sulla concentrazione di monoculture e non sulla foresta originaria. Praticamente avevano piantato aree di soli eucalipti, soli bambù, soli cedri del Giappone e non la combinazione delle specie. L’assenza di biodiversità avrebbe potuto così, sempre secondo gli studiosi, ripercuotersi sulla fauna locale in termini quasi peggiori che non l’inquinamento. Ora il tiro pare sia stato corretto.

Non stupisce che tra gli indicatori siano stati utilizzati uccelli e api. I primi utili per capire come lo sviluppo della foresta si ripercuota sulla fauna che ci vive, le seconde per avere un quadro delle specie floreali presenti. Nelle foreste di monocolture gli uccelli tendono a essere meno numerosi e meno variati. Le api soffrono invece per fioriture limitate che possono portarle a sciamare altrove. Tutto questo non succede quando le piantumazioni sono il più vicino possibile alla foresta originaria.

La via italiana

La lezione può essere tradotta in italiano. Quando i nostri vecchi curavano i boschi, si accertavano che le specie fossero in equilibrio e – senza lauree o laboratori – sapevano che la montagna sarebbe così stata al suo posto senza rovinare a valle e continuando a dare da mangiare e scaldare.

Dissesto, risorse e legna erano gestiti a livello di villaggio e comunque funzionavano. Nel loro piccolo, ma davano da vivere. Molti dei rimedi sono oggi on line, ora anche in una pubblicazione scaricabile gratuitamente.

Ma niente è come il poter andare in uno dei villaggi tra Alpi e Appennini e ascoltare gli anziani. Fatelo, scoprirete un mondo. Puntate al bar del paese, li troverete magari a giocare a carte, soprattutto troverete un libro aperto sull’ambiente. Cose che la Princeton o il più agguerrito degli ambientalisti neanche si sognano.

Occhio ai cinghiali (e chiamatemi Obelix)

Curiosi si sapere la storia dei troppi cinghiali (e caprioli e cervi e ogni altra cosa si muova nel bosco che si possa impallinare)?

Si alzano reti. Ci sarà una rivolta brutale e distruttiva, un’invasione e un macello che potrebbero coinvolgere centinaia di migliaia di individui nei prossimi anni.

Non è l’incipit di un nuovo romanzo fantasy, ma uno scenario italiano raccontato dal New York Times. Prima che però vi procuriate armi e munizioni – o un rifugio, a seconda se vi sentite più Zagor o più Gandhi – sappiate che non parliamo di nuove invasioni barbariche ma di cinghiali.

L’ungulato selvaggio italiano più diffuso ha un problema: è troppo diffuso. E i consigli regionali stanno dandosi da fare per la riduzione della popolazione. Toscana e Liguria su tutte. Ovviamente scodinzolano i cacciatori, che possono contare su una stagione più estesa. Si aggiungono anche i contadini, che sperano di non trovare più i loro campi pieni di crateri che manco una pioggia di meteore. Per chi coltiva, in effetti, i cinghiali sono distruttori di raccolti, sterminatori di greggi e animali allevati, causa di incidenti stradali. Una specie di apocalisse in salsa agreste, insomma.

Dall’altra parte della barricata ambientalisti e intellettuali che “sui cinghiali solo bugie, la Toscana condanna a morte degli innocenti”. Con Dacia Maraini a sostenere che ogni scusa è buona per fare strage di animali selvatici o Enzo Maiorca che si domanda quale diritto abbiano gli umani a compiere decimazioni contro altre creature viventi. Prese di posizione forti che sfociano nel sostenere che se il cacciatore 73enne è stato seccato dal cinghiale la colpa non è del cinghiale. E vorrei ben vedere, a prescindere dai pro e contro cinghiali: se vai a caccia accetti il rischio di morire, condiviso – guarda un po’- tra te e la preda che vorresti impallinare.

Prima che mi si obbietti l’avermi riconosciuto con la testa in un paiolo di cinghiale alla Obelix – lo ammetto, mi piace la selvaggina e per la mia forma potreste pure confondermi per il compagno di Asterix, il quale caccia però cinghiali solo per il proprio sostentamento e non per divertirsi a impallinare esseri viventi – credo che la verità stia nel mezzo. Forse non è necessario preparare arsenali o irrorare veleni. I periodi di caccia ci sono già e bastano. Come i rimedi.

PS. In realtà, non mangio più cinghiale da un po’. Precisamente da quando ho conosciuto Gildo. È il cinghiale che mi viene a trovare di notte al paesello dove mi ritiro a scrivere. Me lo avevano segnalato Federica e Beatrice, che gestiscono un magnifico maneggio al margine del nostro bosco e lo trovano spesso a condividere il recinto coi cavalli. Vi garantisco che nessuno di noi tre ha mai avuto nulla da temere. In compenso, quando domenica scorsa ho sentito le carabine scaricarsi nella vallata, mi son domandato che effetto faccia essere dalla parte sbagliata della canna. Forza Gildo, corri!

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Lubiana, capitale verde d’Europa

Lubiana, capitale slovena, è una meta perfetta per un city break autunnale.

Immaginate di guidare attraverso un territorio vasto quanto quello della Lombardia e, dopo aver percorso chilometri e chilometri di strade a pennellare colline e montagne rivestite di boschi, arrivare nel capoluogo, una città di circa 300.000 abitanti. Ecco questa è la Slovenia con al centro la perla di Lubiana. Tutta questa boscosità non dispiace e la piccola capitale si è guadagnata il titolo di Capitale Verde Europea per il 2016.

Il modello virtuoso parte da lontano, con un sindaco che suscitò parecchio scalpore per le sue scelte che furono travisate. Di provenienza manageriale, da una delle catene commerciali più importanti del paese, la volontà di dare una sterzata ecologica con chiusure al traffico e vincoli di riciclo fu interpretata come uno sgarbo ai commercianti locali del centro storico. La chiusura totale – e per totale intendo davvero totale – del cuore cittadino e le opere infrastrutturali, come i cassonetti automatici e il recupero delle sponde fluviali, assorbirono molte risorse. In realtà tutto era stato palesato in un piano denominato Vision 2025 che, trovando un ottimo tessuto ricettivo nei cittadini, ha perfino anticipato i tempi di realizzazione dei progetti.

Facendo un passo indietro nel tempo, per diventare città verde europea serviva ottemperare parametri precisi: azioni contro il cambiamento climatico, potenziamento dei trasporti locali, intensificazione delle aree urbane verdi, incentivazione dell’uso sostenibile del territorio, agevolazione di biodiversità. E poi via così verso qualità dell’aria, qualità dell’ambiente acustico, produzione razionale e gestione dei rifiuti, gestione delle acque, trattamento acque reflue, ecoinnovazione e occupazione sostenibile, rendimento energetico e gestione ambientale integrata.

In ognuna delle voci Lubiana ha barrato la sua casellina ed eccoci qui io a scrivere a voi a leggere di questa bomba innescata a clorofilla dove a molti piacerebbe vivere. I motivi si leggono in alcuni dei comportamenti già assimilati degli abitanti oltre che nelle scelte dell’amministrazione. Sarà perché li è diventata abitudine a tenere in tasca una smart card che offre libero accesso ai parcheggi costruiti nelle periferie ed è utilizzabile a bordo dei bus ibridi che poi traghettano verso il centro. O perché, arrivati qui, micro taxi elettrici curano a loro volta i collegamenti punto a punto. Le stazioni per la raccolta dei rifiuti differenziati sono state interrate e automatizzate. I punti di noleggio del bike sharing sono stati intensificati. Le sponde e le acque dei corsi che attraversano la città, a partire dalla Ljubljanica su cui si affacciano i bar e i locali del centro storico, sono stati riqualificarti per diventare luoghi di passeggiata e di sport. Se un terzo della superficie urbana oggi è destinata al verde o comunque vincolata dall’impossibilità di costruire, gli abitanti hanno molto ben recepito mettendoci del loro a fianco allo sforzo dell’amministrazione. Così nei parchi sono nate le biblioteche all’aperto dove i volontari arrivano con casse piene di libri e qualche sdraio creando dei punti di aggregazione dove lo sfogliare delle pagine si accompagna ai cinguettii. Le associazioni culturali si sono fatte avanti con il recupero delle aree dismesse. Ne è un esempio il parco Tabor. Centralissimo ma abbandonato a se stesso fino a qualche tempo fa, oggi è diventato un luogo per conversare e giocare a basket. In un confinante capannone sventrato, un centinaio di pollici verdi hanno anche pensato all’orto urbano. Non distante, un bar fatiscente è stato chiamato Knijznica Reci, che tradotto suona come “biblioteca delle cose”, dall’utensile al pezzo di arredo puoi prendere in prestito quello che ti serve per restituirlo quando hai finito di usarlo.

Sapete cosa fa la differenza tra queste azioni e piani milionari di riqualificazione? I milioni, appunto. E i palazzinari che qui non si palesano con doni tipo “ti facciamo il giardinetto pubblico in cambio della concessione per costruire un frigorifero in vetro e cemento alto 30 piani”. A Lubiana la ricetta è a base di buona volontà amministrativa e cittadini che ci credono.

A chi è consigliata dunque una visita nella capitale slovena? Fondamentalmente a chi apprezza la qualità della vita in una cornice austroungarica che potrebbe renderla paragonabile a quella di una piccola Vienna, ma soprattutto a chi vuol prendere esempi. Se il riferimento della popolazione è comunque una variabile applicabile alla situazione italiana, molti sindaci potrebbero tranquillamente andarci e trarre ispirazione per offrire al loro cittadini quello che chiamerei una sorta di effetto Lubiana.

Poi ci vadano i diretti interessati, ossia i cittadini. Il borgo è ricco di suo e non fatica a farsi apprezzare. In Italia cose belle da mostrare non mancano anche se non ci sono i draghi verdi del ponte sloveno più famoso. Se il castello sulla collina che domina la città è difficile da imitare, il collegamento diretto col trenino – gratuito – a propulsione elettrica rientra nella lezione del fattibile. Credendoci gli obiettivi si raggiungono a prescindere dal momento di crisi e non sottovalutando, mai, il potere di aggregazione delle persone e la forza di realizzare progetti che questo potere manifesta.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post con una photo gallery originale.

Sharing economy: condividi i vantaggi, risparmi tu e l’ambiente

Si parla sempre di più di sharing economy. Il 70% degli Italiani, rivela una statistica dell’istituto di ricerca TNS, ne conosce il significato e un terzo di questi ne ha utilizzato almeno una volta i servizi.

La conferenza sul clima di Parigi è stato un ottimo aiuto per ricordare che il movimento del consumo collaborativo aiuta a sfruttare meglio le risorse non utilizzate e può manifestare una trasformazione concreta su due livelli facilmente riscontrabili. Innanzitutto influisce sul borsellino dei viaggiatori facendoli risparmiare. In secondo luogo, cambia le attitudini mentali nel non possedere in esclusiva oggetti che si usano solo parzialmente. Ci sono così molti elementi che aiutano a limitare il cambiamento climatico incoraggiando le pratiche di sostenibilità nei vari ambiti, siano essi case, frigoriferi o veicoli, giusto per citarne alcuni.

Secondo uno studio di Cleantech Group, i viaggiatori che si affidano ad esempio alla condivisione di una casa emettono il 66% in meno di CO2 rispetto a chi sceglie alberghi che devono impegnare molte energie per raggiungere livelli di efficienza tali da guadagnare le stelle di classificazione. Analogo riflesso si ha nell’ambito alimentare: condividere una cucina o comunque il contenuto di un frigorifero permette di risparmiare sull’acquisto delle quantità e ottimizzare i consumi limitando gli sprechi.

È forse nei trasporti che si manifesta, però, il più grande e sorprendente vantaggio ambientale della sharing economy. Una ricerca dell’Università di Berkeley ha stabilito che per ogni veicolo utilizzato in tutta la sua capacità di trasporto grazie alla condivisione, se ne potrebbero togliere dieci dal traffico congestionato delle città.

Sommando tutte le attività degli operatori presenti sul nostro mercato (Airbnb, BlaBlacar, Gnammo, HomeAway, VizEat, Smartika, iCarry, CoContest, Guide Me Right, GoGoBus, Timerepublik, Tabbid, Produzioni Dal Basso, LastMinuteSottoCasa, L’Alveare che dice Sì, solo per citarne alcuni) la sharing economy può anche diventare un motore per la micro imprenditoria, stimolando a livello locale la crescita di nuove imprese e attenuando gli effetti della crisi di altri settori.

Non buchiamo il referendum delle trivelle

Tra malinformazione e silenzi, domenica 17 ci sarà chiesto di dire la nostra al referendum sulle trivelle, ribattezzato No Triv.

Estremizzo le due posizioni che vi sarà capitato di sentire. La prima: se continuiamo a bucare, ci si sgonfia il pianeta sotto i piedi e sarà un gran casino con un disastro via l’altro tra maree nere, terremoti e torri in metallo all’orizzonte così brutte che neanche i gabbiani vorranno farci sopra la cacca. La seconda: se non buchiamo dovremo andare a piedi, avremo orde di disoccupati per le strade, diventeremo una specie di terzo mondo fuori dal terzo mondo.
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Stephen Hawking, genio, perfino nel mettersi in gioco nel nuovo spot Jaguar

Conosciamo lo scienziato Stephen Hawking per il lavoro della sua mente, ora lo abbiamo anche in veste di testimonial Jaguar. Nonostante la SLA lasci ormai pochissimo spazio alla sua mobilità, la sua testa è lucidissima, al punto da riuscire a scherzare su se stesso.

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Senza nessuna autocommiserazione, ha accettato di recitare nello spot della nota casa automobilistica britannica (ora di proprietà indiana) e di vestire i panni di un ipotetico capo dei servizi segreti. Lo stile alla Bond del filmato gli attribuisce subito un certo fascino, accentuato dalla location scelta per simulare l’arrivo dello 007 di turno.
Per la cronaca, l’esterno dell’avveniristica costruzione si trova in Italia, al passo Rombo, collegamento tra Val Passiria (Alto Adige – Südtirol) e l’Otztal (Tirolo austriaco).

Le costruzioni costituiscono il Pass Museum e sono state progettate da Werner Tscholl, l’architetto che ha lavorato con Reinhold Messner alla progettazione del Messner Mountain Museum di Firmiano.  L’insieme delle architetture – 5 in tutto – fanno parte del sistema musealizzato di questa strada che, in origine una mulattiera, unisce due vallate tra le più caratteristiche di questo settore delle Alpi.

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Chi se ne frega degli incendi dall’altra parte del mondo?

Incendi di vaste proporzioni stanno incenerendo le foreste primordiali della Tasmania, il fuoco si sta mangiando interi boschi primordiali. Guardo il mappamondo, scopro che è proprio dall’altra parte del globo, tiro un sospiro di sollievo. Chissene? Poi, non ci hanno sempre detto che il fuoco non doloso che si mangia un bosco, fa parte della natura? Le fiamme svolgono un ruolo chiave di rinnovamento in un ecosistema e tiro pure un sospiro di sollievo.

Perché allora molti media di tutto il mondo se ne stanno occupando? Continua la lettura di Chi se ne frega degli incendi dall’altra parte del mondo?