Archivi categoria: Terra degli Orsi

Le iene: amarsi oltre la morte

Quando scrivi un documentario cerchi di limitare al massimo le contaminazioni per riportare nel più fedele dei modi la realtà. Il servizio delle Iene Amarsi oltre la morte trasmesso il 19 febbraio non è un documentario, ma mi piace pensare che lo sia. Racconta l’amore scevro da ogni costruzione intromettendosi in una storia e aggiungendo qualcosa. La Iena è partita dal messaggio di una persona che, prossima al decesso, voleva che al suo compagno fossero riconosciuti i diritti equiparabili a quelli di due persone sposate. Quei minuti di interviste incrociate e di confessionali hanno toccato il cuore di parecchi italiani. Dimostrano soprattutto che, se una legge può essere sbagliata, anche l’assenza di una legge può essere sbagliata.

Il servizio accenna anche al contratto di convivenza, un palliativo che comunque offre almeno un primo grado di tutela. A monte di tutto però c’è la storia che ti sbatte in faccia una delle molte situazioni in essere quando due individui non sono legati in matrimonio. Badate che è del tutto marginale che qui siano raccontate due persone dello stesso sesso, una delle quali purtroppo viva ora solo nei ricordi di chi l’ha amata. Sfido chiunque, di qualsiasi credo religioso o visione politica, a non trovare negli sguardi dei due protagonisti un’ottima ragione a varare una legge la cui assenza continua a rimanere una grande ingiustizia. Il capo del governo aveva fatto delle promesse precise, il suo vice ha vietato però le trascrizioni dei matrimoni contratti all’estero, poi vedo in tv servizi come quello sopra. Mi manca davvero qualche pezzo per fare dell’Italia il paese che vorrei.

Questo articolo, pubblicato anche sull’Huffington Post, è dedicato a Walter ed Ema. Walter era di Monza, come chi scrive. Un motivo in più, ne servisse uno, per sentirlo vicino.

Le isole volanti di Avatar, con i kokedama il bosco in casa tua

Quando vidi Avatar la prima volta, più di tutto mi impressionarono le isole galleggianti. Nel favolone hollywoodiano, trama ed effetti non mi lasciarono a bocca aperta come l’idea delle bolle boscose sospese nel vuoto e dalle quali gocciolavano cascate. Pur in scala ridotta, mi ha fatto più o meno lo stesso effetto vedere in casa di un amica dei kokedama. Ignoranza mia, non li conoscevo. Sono delle appendici verdi, arbustive o floreali, che possono vivere appese a un filo o isolate su una superficie piana. Non ne scrivo per un rigurgito bricomaniaco, ma per passione del verde.

Amo gli alberi e non sono tra quelli che ritengono i bonsai una forzatura della natura. Penso anzi che, accudire uno o più di loro, sia un po’ come farsi un bosco proprio, solo in miniatura e in proporzioni domestiche. Un kokedama, mi hanno spiegato, è molto più facile da preparare e da accudire. Ha poi lo stesso effetto di abbellimento, portando atmosfere zen a un angolo di casa o di ufficio. A Milano esiste anche un corso che è tenuto in un negozio di biciclette. Non dite che è un caso, perché chi ama pedalare, apprezza i boschi. Provate a pensarci.

Siamo nel pieno dell’inverno, dunque ancora in anticipo per orti, giardini e pedalate fuori porta. Ma non abbastanza presto per dedicarci ad una pianta e ancora di più per conferirle un aspetto molto personale. Anticipo di primavera? Forse. Intanto mettere naso e occhi nel verde può perfino essere un ottimo antidepressivo. Lavorare con le piante riesce a creare piccoli miracoli, che in questo caso durano nel tempo lasciandoci cose belle. Proprio come una sana pedalata, sono piccoli effetti speciali quotidiani per i quali non serve Hollywood.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Mattarella e La Cava, le pagine di un presidente

Mattarella è un presidente che, a mio parere, è partito col piede giusto. Di lui stiamo leggendo un po’ di tutto e forse iniziamo ad averne le orecchie piene. Vorrei, però, concentrarmi solo per un attimo su un suo gesto perché, se il buongiorno si vede dal mattino, penso che da questa figura possiamo aspettarci molto. Un capo di Stato che comincia dalle Fosse Ardeatine non è solo un uomo che rende omaggio a un eccidio. E’ il segnale che proprio partendo dalla nostra storia bisogna guardare avanti. Non sono le Fosse in quanto tali, mai abbastanza ricordate, ma il gesto del visitarle come primo atto. Sostituiamo pure storia con cultura, tradizioni, eventi che ci hanno segnato, mettete quello che volete ma posso quasi sapere solo il minimo indispensabile di Mattarella per mettere il primo like. Il suo si chiama “rispetto”.

Mi viene in mente una frase di Marguerite Yourcenar:

Fondare biblioteche è un po’ come costruire ancora granai pubblici: ammassare riserve contro l’inverno dello spirito.

 Schermata 2015-02-02 alle 20.25.27

Per quanto mi riguarda, l’essersi infilato in quella cavità maledetta fa di Mattarella uno che le pagine scritte, piacciano o non piacciano, le legge, le rispetta, le porta con sé. Vedo le Fosse Ardeatine come una biblioteca con 335 storie urlate e spezzate. Con la visita delle scorse ore, sono state raccolte, spolverate e ordinate su uno scaffale e ritornate ad essere davvero un monito contro l’inverno dello spirito.

Trovo un certo parallelismo con un altro uomo, affatto famoso, forse meno titolato, forse senza calcolo politico – non so se Mattarella ne abbia ma qui non mi interessa – forse che non ha subito quello che la vita ha già riservato al neo presidente. Sicuramente è uno che non conoscerà né i riflettori della cronaca, né i saloni pomposi di Roma. Si chiama Antonio La Cava e ha perfino una fan page di facebook che lo acclama presidente della Repubblica. Antonio è un maestro elementare che, dopo 42 anni di servizio, anziché godersi la pensione in santa pace, ha preso un apecar e lo ha trasformato in biblioteca ambulante. Avete letto bene. Gira con il suo biblioautocarro tra i paesini della Lucania a trasmettere la passione per i libri e le storie. 500 chilometri al mese sono davvero tanti e sono quelli che macina tra le piazze annunciandosi al suono di un organetto.

20131028-biblioteca-movel

Ecco, forse, la chiave di tutto. Passione. Grazie Sergio, Grazie Antonio, vecchie pagine e vecchie piazze vi aspettano per essere rinfrescate dal vostro rispetto. Son pronto a scommettere che non ci deluderete.

Post scriptum. Mentre sto per chiudere il pezzo, apprendo che oggi (domenica) il Presidente, quello che sta a Roma, ha scelto di spostarsi a piedi nel centro per rispettare il blocco del traffico come tutti gli altri cittadini. L’esempio scende dall’alto e io gli appioppo subito un altro like.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Il ritorno alla campagna, come lo vedi?

Negli Usa c’è una rivista che sta riscuotendo un successo inaspettato. Non parla di smartphone, non fa gossip, non pretende di vendere felicità in pacchetti simil-zen. Racconta piuttosto del ritorno alla campagna e si rivolge a quelli che avvertono il richiamo della terra senza l’angolazione degli agriturismi visti da bordo piscina o le vigne con cantina disegnata dall’archistar di turno.

La rivista, che è anche un sito, punta anche all’home-farming rivelando le soddisfazioni del farsi (e coltivarsi) le cose da soli. Poi c’è chi esprime una scelta ancora più radicale e all’opzione del ritorno alla campagna e all’autoproduzione aggiunge l’impegno di farne una professione. Questi sono, secondo me, un po’ degli eroi. Ne ha descritti alcuni Alessandro Cannavò in un suo pezzo. La lucidità del giornalista, che è anche un camminatore e un amante della natura, non nasconde che per scegliere la campagna a 360° devi farti un c… così. Perdonate la forza del termine, ma un conto è fare un aperitivo green sull’aia al tramonto. Altra cosa è alzarsi a mungere prima dell’alba, scrutare il cielo per la pioggia, che non sia troppa o troppo poca, spalare letame e scommettere che il raccolto andrà bene.

Solo se avanza tempo, c’è l’opzione di unire l’utile al dilettevole e organizzare giri a dorso di mulo per far scoprire il proprio territorio a chi ne è attratto. È il caso di Roberta Ferraris. Ci ha scritto un libro e ne trovate alcuni passaggi in rete. Ha uno stile che smorza subito le illusioni pur fornendo una lista di luoghi che non aspettano altro che essere ripopolati. Ne cito alcuni dalle sue pagine, casomai voleste covare l’idea.

Carta geografica alla mano, ecco le nuove frontiere da ripopolare. Tutto il crinale dell’Appennino settentrionale, con punte estreme di abbandono nell’area nota come “Quattro Province”, dove si incontrano le province di Genova, Alessandria, Pavia, Piacenza. L’entroterra montano delle province di Savona e Imperia. Le valli di Cuneo e di Torino. L’alta Langa. Vaste zone della val d’Ossola e della Valsesia. Le Alpi Orobie in Lombardia, tra la Valtellina, Bergamo e Brescia. L’alta Carnia, le Dolomiti bellunesi e vaste zone delle province di Pordenone e Belluno. Sorprendentemente, buona parte dei comuni rivieraschi lungo l’asta fluviale del Po, e soprattutto nelle province di Rovigo e Ferrara. Le zone interne dell’Appennino tosco-emilianoromagnolo, inclusi i comuni interni di Lunigiana e Garfagnana sulle Alpi Apuane. Molti comuni appenninici delle Marche, dell’Umbria, del Lazio, dell’Abruzzo. Tutto l’Appennino meridionale. Le aree interne montane di Sicilia e Sardegna.

 beeker2

Nessun incanto nelle sue parole. Semmai accenna la riscoperta di certi valori pur smorzando le visioni idilliache. Chiarisce che un vegano non può essere un montanaro, ma un attimo dopo afferma che nelle Langhe lei sceglie di usare gli asini per dissodare. Ma nel 2015 non sarebbe meglio un trattore? No, comprime troppo il terreno. Certe scelte sono pura filosofia. A chi crede che i pionieri sono degli illusi, rispondo che dovrebbero conoscere Roberta. Di illusi così, ne ha tanto bisogno il mondo.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Super navi da crociera ancora in laguna a Venezia.

Le super navi da crociera potranno avvicinare di nuovo  Venezia. Il Tar ha annullato il limite al passaggio dei supercondomini galleggianti nel canale della Giudecca. Gli schieramenti bipartisan, le foto di Berengo Gardin, gli sguardi attoniti dei turisti che vedevano scorrere palazzi di 15 piani sfiorando piazza San Marco non sono bastati.

I giudici hanno ritenuto che la mancanza di una via di transito alternativa e la mancanza di una comprovata informativa sui danni reali fossero motivi sufficienti al nuovo semaforo verde. Ora, capisco le ragionevolissime questioni legate al sostegno del turismo, ma credo sia opportuno domandare qualche spiegazione ai giudici del Tar.

Secondo voi è sensato accostare alle architetture veneziane questi carrozzoni da vacanza industriale? Sicuri che i croceristi destinati ad un ormeggio in un porto limitrofo non sarebbero comunque attratti dalla perla della laguna?

Dimenticandoci per un attimo dell’impatto visivo, avete presente che massa d’acqua spostano questi colossi nel loro movimento a poche decine di metri dalle già precarie fondamenta?

Il taglio del traffico stabilito dai precedenti decreti era pur minimo (12,5%), ma era un chiaro segnale. Perché ignorarlo? Sinceramente: piazzereste un supercondominio di fronte al Colosseo o uno stadio in ferro a fianco alla torre di Pisa?

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Alan Turing – The imitation game

Avete presente Alan Turing e il film The imitation game che racconta la sua storia ed è ora nelle sale?

Cinque anni fa vidi la macchina Enigma esposta al War Museum di Londra e mi colpì. Conoscevo la storia del matematico. E il trattamento che gli avevano riservato. Avevo anche sentito parlare del suo compagno Alistair. Così ho provato a immaginare un pezzetto di quella loro storia. Quello che non avevo immaginato è che dopo cinque anni dopo ne avrebbero tratto un film.

Se vi piace, potete diffonderla liberamente. Vi chiedo solo, per favore, di citare la fonte. Grazie.

Turing

ENIGMA (©2011 – Stefano Paolo Giussani)

Ad Alan Turing e Alistair Noon

King’s College, Cambridge, 1934.

Quel letto sarebbe stato normalmente troppo stretto per due persone. A vent’anni non sai ancora se preferisci stare vicino a chi dorme con te per scaldarti o avere lo spazio intorno per dormire allungandoti senza ostacoli. Loro erano di quelli a cui piaceva sentirsi vicini. Avevano l’abitudine di ascoltare il battito dell’altro tornare normale dopo l’amplesso. Al crepuscolo il più giovane sarebbe sgattaiolato nella sua camera in fondo al corridoio. Appena in tempo perché nessuno si accorgesse di nulla.

Stavano per ore affiancati così. Nudi. Con il sudore che raffreddandosi metteva voglia di stare più vicini l’uno all’altro. A cercare il calore della pelle dell’amico sulla propria. La stanza era rettangolare. Su un lato il letto. Di fronte un armadio e uno scrittoio sormontato da una piccola libreria. I libri, disposti ordinatamente, erano tutti testi di aritmetica. Un orologio era appoggiato su uno dei ripiani. Il suo ticchettio segmentava l’aria immobile del college. Il soffitto seguiva l’inclinazione del tetto, interrotta a metà da una grossa trave in legno. Per il più anziano, quella superficie spezzata era un puro esercizio geometrico. Un quadrato diviso in due rettangoli. Per il più giovane era invece una specie di finestra. Alla vista era chiusa, ma dietro quella grande anta in legno brillava un cielo pieno di stelle. Stelle che anche dalla finestra, quella dietro cui i rami del giardino balbettavano dal freddo, tremolavano con maggior intensità quando loro due erano assieme.

Alan era il matematico, Alistair il poeta.

È la nostra ultima notte assieme, disse Alistair sottovoce.

Chi può dirlo questo? rispose Alan come se stesse fissando qualcosa sul soffitto.

Lo sarà almeno per un po’. Parto per un giro in Europa.

Il matematico non se l’aspettava. Continuando a rimanere sdraiato girò la testa verso l’amico. Lo fissava infilarsi i boxer, la pelle raccoglieva il chiarore che filtrava dalla finestra e se lo spalmava addosso. Avrebbe voluto farlo lui. Quello in piedi si chinava a raccogliere le sue cose. La maglia, la camicia, le scarpe, tenute in mano. In quello stato di quiete notò che i piedi nudi facevano scricchiolare le assi nella stanza. La dita si distinguevano nella penombra sullo scuro del legno. Quando la porta si chiuse alle sue spalle, i passi nel corridoio schiaffeggiarono il pavimento mentre si allontanava.

 

Oceano Atlantico, HMS Garland, primavera 1942.

Sul ponte della corvetta inglese due ufficiali e un civile scrutano l’orizzonte. Non è una linea precisa ma un contorno sfumato reso incerto dall’acqua sollevata dal vento e spazzata come polvere. In lontananza si intravede il sole schiacciato tra nubi e mare. Riempie una linea infuocata tra due tavole color cenere che solo in certi punti assorbono la luce al giorno, si illuminano e vorrebbero incendiarsi.

Signor Turing, i nostri hanno iniziato a trasmettere. Ci affiancheranno entro pochi minuti. La voce del marinaio sopra di loro riesce appena a superare il rumore delle onde che sbattono sulla fiancata della nave. Gli ufficiali impugnano i loro binocoli puntandoli verso una unica direzione. Alan Turing ancora non distingue nulla e socchiude le palpebre per resistere alla raffiche di salsedine.

Dal centro della nave un gruppo di uomini si prepara a calare in mare una lancia. Un uomo in uniforme da ufficiale al fianco dell’unico in abiti civili gli indica un punto in mezzo all’oceano. Una luce. Sembra ancora lontana. La lontananza dell’orizzonte e le nubi basse non gli permettono di valutare la distanza. Negli elementi instabili del piano marino, tutto è precario. Non c’è verso di avere un fulcro nell’acqua. Sono colline liquide che si muovono alzando e abbassando la lancia ormai staccata dalla nave da guerra. L’unico punto stabile per Alan è la murata della corvetta. Sembra resistere indifferente all’acqua e al vento.

Il faro che prima era lontanissimo e spariva tra le onde, ora lampeggia tra gli spruzzi. Si avvicina.

Si distingue avanzare una sagoma scura. Fende la superficie rimanendo sul pelo dell’acqua. È un sommergibile. Il ponte è coperto dall’acqua, scivola indisturbato tra lievi colline fluide. Gli ricorda uno di quei grossi tronchi durante le mareggiate invernali, quando dalla scogliera si vedono galleggiare mentre lasciano passare sotto di loro onde grosse come montagne. Solo la torretta emerge dall’acqua mentre sulla sua cima si muovono mezzi busti di uomini. Si capisce che c’è una certa attività ma non si distingue cosa stanno facendo.

Ora le due navi sono quasi affiancate. Sul ponte della corvetta si sente un borbottio. È il motore diesel del sommergibile che a tratti gorgoglia sotto la superficie dall’acqua. È un rumore pigro che sfuma nei fischi delle raffiche del vento.

Alcuni dei marinai della torretta scendono sul ponte. Uno a fianco all’altro formano una catena e coprono la distanza fino alla scialuppa che adesso tocca il sommergibile. In balia delle onde e sospeso tra le due navi il motoscafo sembra ancora più piccolo. In certi momenti sembra debba essere ingoiato dalle onde, che però lo sputano subito dopo. Gli uomini si scambiano dei pacchi. Verso il sommergibile si distingue quello della posta. Alan pensa che probabilmente quegli uomini sono in missione da parecchio tempo. Una grossa scatola scende invece di mano in mano dalla torretta fino al motoscafo. È una cassa, distingue bene le assi che segnano la forma di un parallelepipedo. Gli uomini la appoggiano sul pavimento. Usano una delicatezza inusuale per dei marinai che ti aspetti abituati agli schiaffi dell’oceano, la trattano come se fosse un oggetto fragile. L’uomo a poppa piega con decisione la barra del timone e ridà gas al motore. Il piccolo scafo si allontana veloce per tornare verso la corvetta, come un bambino che ha fretta di scappare dal nuovo arrivato per tornare dalla mamma. Il tempo di fissarlo mentre spancia sull’acqua sotto di loro e Alan nota che anche il sommergibile è ripartito. È già lontano, al termine di una scia di schiuma che ribolle tra le onde infrante. Sta per scomparire, discreto come si era avvicinato.

Nel quadrato degli ufficiali la cassa è appoggiata sul tavolo. La sagoma regolare è illuminata dalle luci sul lato anteriore. Risalta sulla parete scura. Ha quasi l’aspetto di un altare all’interno di uno spazio sacro. Sacerdotale è anche il silenzio. Sul fronte della cassa una sola scritta: for intelligence use only.

Il comandante con un cenno della testa indica ai due marinai di aprire la cassa. Delicatamente, ragazzi. Da quel pezzo di legno dipende la guerra, dice loro mentre infilano le mani tra i legni. Le braccia nude si gonfiano mentre la estraggono. L’oggetto è pesante, esce lentamente dal contenitore.

Un telo mimetico avvolge una specie di macchina da scrivere. Ha una tastiera, ogni tasto marchiato con una lettera o una cifra. L’occhio immobile di un’aquila nazista nella parte superiore sostiene e ricambia lo sguardo di tutti. Ora è affar suo, mister Turing, aggiunge il capitano mentre continuano a fissare l’oggetto al centro della stanza. Alan si scambia un’occhiata con l’unico uomo che indossa un’uniforme diversa da quella della marina. Dev’essere dello stato maggiore.

Signori, ora potete lasciarci soli, dice l’ufficiale. Come Alan, anche lui dipende dalla Hut8. Sono criptoanalisti del ministero della guerra. Devono rompere il più grande segreto della marina tedesca. Il codice Enigma, il linguaggio cifrato con cui comunicano le navi di Hitler.

 

Quartier Generale Hut8, Bletchley Park, Autunno 1944.

I numeri sono dati oggettivi, non hanno bisogno di interpretazioni. Le parole sì. Hanno più di un significato. Una stessa parola cambia a seconda di come la pronunci o la ordini in una frase. Un matematico e un poeta, per questo, non potranno mai andare d’accordo.

Alan pensava questo prima di incontrare Alistair. Poi aveva scoperto che il cuore era una specie di denominatore comune che poteva far dialogare i due universi. Matematica e poesia erano diverse ma riuscivano a parlarsi.

Nel mezzo dell’oceano lui, il matematico diventato per necessità criptoanalista, si era trovato di fronte alla macchina che decifrava segnali. Ci aveva lavorato sopra da subito. Giorni e notti. Aveva imparato a prevenire le mosse del nemico. Raccoglieva informazioni. Salvava vite. Creava le condizioni perché ne finissero delle altre. Erano anche quelle addizioni e sottrazioni. La morte di un marinaio è una tragedia per una famiglia, l’affondamento di una nave con mille uomini è solo una statistica. Operazioni matematiche di guerra calcolate solo spostando carte e senza mai abbandonare l’edificio vittoriano tra le piante secolari nella campagna di Londra.

Da qualche parte sulla costa del continente aveva immaginato Alistair in una strada a combattere. All’inizio della guerra sapeva che lo avevano visto lanciare bombe tra le milizie popolari contro l’alziamento dei generali in Spagna. So bene che lotto per qualcosa che non durerà. Nessun futuro è per sempre, gli aveva detto il poeta prima di partire. Spesso sente ancora quelle parole, la voce dell’amico gli echeggia nella testa. Era stato il suo commiato appena prima di partire. Prima di uscire scalzo dalla stanza.

Io combatto per il mio passato, perché un po’ di me riposi intatto in quello che è accaduto. Era il suo modo per scendere in campo. Immediato, sanguigno, per lui era perfino naturale, come un verso di una poesia. Lasciar scorrere il sangue nelle vene fino alle mani. Lasciare che il fluido bollente le muovesse nel combattimento. Per questo si era unito a un gruppo di catalani.

La Catalogna, gli aveva scritto poi, è un posto perfetto per i poeti.

Ormai erano cinque anni che non aveva più sue notizie.

 

Nella stanza Alan è solo. È appena tornato da una corsa sotto la pioggia. Gli piace correre. Sulle lunghe distanze ha una buona resistenza. Lo aiuta a pensare. Lo aiuta a sfogarsi.

È completamente sudato. Si toglie la maglia fradicia e la butta a terra. La lascia a fianco alle scarpe nel centro di una pozza. C’é un tavolo nella stanza. In mezzo alle carte sparpagliate c’è una tunny. È una delle macchine del codice Enigma. Ormai le chiama con confidenza, le conosce fino all’ultimo degli ingranaggi. Il codice è rotto da tempo. Per questo alcuni lo chiamano “Il genio della matematica”. Il cono della lampada sul soffitto illumina l’apparecchiatura da sopra, senza lasciare ombre. È quella arrivata con il sommergibile nell’Atlantico, la prima trovata. Puzza ancora di carne bruciata. Ha letto poi nei rapporti che c’era stato un incendio a bordo della nave tedesca durante l’attacco. L’odore è forse di qualcuno che è morto vicino alla macchina. Immagina un giovane marinaio cresciuto sulla costa tedesca. Forse non gliene fregava perfino niente della guerra. O forse era un invasato del nazismo e ha difeso fino in ultimo il segreto.

Ogni tanto torna a toccare la macchina. Quando si muovono i tasti, i rumori metallici si susseguono in un incastro perfetto di suoni. Sono rumori affilati nel silenzio della stanza. Alcuni più lunghi. Altri più brevi. Dipende dalla lettera. Ogni volta che schiaccia avverte una sensazione strana. Come di irreversibilità. Alan riflette come sia impossibile cancellare la lettera originata dal suono. Battuto un tasto non è più possibile tornare indietro. A… B… segni che si trasformano in suoni e scivolano nell’aria.

La guerra sta per finire e gli hanno permesso di tenere la macchina. Ormai sono riusciti a prenderne altre. Poi, a lui è concesso. È quello che ha rotto il codice. Forse anche per questo alla Hut8 lo trattano con rispetto. Sono perfino disposti a dimenticarsi certi suoi comportamenti. Sanno che preferisce gli uomini alle donne. Almeno nel suo letto. Se ne sono accorti quando ha detto di no a Joan Clarke. Una collega, un’amica. Agli occhi di tutti poteva filare. Non ai suoi, non avrebbe mai potuto essere un marito. Almeno per ora non gli possono fare nulla, lui è quello dell’Enigma.

 

A… B…. Due lettere su due tasti. L’inizio dell’alfabeto e le prime due lettere decifrate dalla macchina. A come Alistair. B come Barcellona. Un caso? La matematica non lo ammette. Lui, ora, sì.

È tornato ancora da una corsa. Sul tavolo c’è una busta aperta. La lettera è arrivata in mattinata. È di un amico comune. Conosce il fratello di Alistair.

È morto. A Barcellona. Su una barricata della città durante un attacco dei generali. È successo il 26 gennaio del 1939. Son passati 5 anni. Ne erano già passati 3 quando Alan era in mezzo all’oceano ad aspettare la sua prima tunny.

Alan vuole piangere. Sente il dolce di una lacrima mischiarsi col salato del sudore sul labbro. Ricorda l’ultimo abbraccio di Alistair prima di uscire dalla stanza del college, quei passi nudi nel corridoio. Pensa alle guerre così diverse di un poeta e un matematico.

Quitaly: Quit the Doner racconta l’Italia come non l’avete mai vista

Non so voi, ma le vacanze di Natale sono quelle che più mi ispirano le letture che pennellano visioni dell’Italia. Saranno i video appelli di fine anno o le domande tipo “chissà se l’anno prossimo xyz?” (sostituire xyz con la variabile che preferite), ma la voglia di fermarsi a riflettere non mi è mai mancata nelle serate davanti al camino con le luci dell’albero accese.

Ho incontrato due quadretti che potrebbe valer la pena di condividere per come è presentato il Bel Paese. In una scala di colori i due autori sono il bianco e il nero. Uno, recentemente scomparso, che è stato un grande storico e un riconosciutissimo traduttore dei classici. L’altro mai apparso pubblicamente – pochissimi addirittura conoscono il suo vero nome – che ammette di essersi spacciato agente della questura per scoparsi ragazze extracomunitarie in cerca del visto. Eppure i due rivelano un paio di denominatori comuni potenti: entrambi i loro lavori sono esilaranti e scrivono sapendo il fatto loro, dando una lettura lucidissima del sistema Italia con angolazioni alternative.

Schermata 2015-01-09 alle 10.43.03

 

Ezio Savino ci racconta di un programma politico attualissimo e twittato, ma non cercate il nome di Renzi tra le righe. Lo storico ci fornisce un quadro di come già Augusto si facesse promotore di temi come spending review, riorganizzazione delle provincie, lavoro, riforme costituzionali. Il tutto comunicato al Senato con metodi particolarmente efficaci. A chi ritiene la storia una materia inutile, Savino lascia un testamento spirituale che andrebbe quantomeno letto a scuola, tanto per capire che gli eventi si ripetono e qualche avvenimento futuro potremmo predirlo perfino senza essere il mago Otelma.

Quit the Doner raccoglie in 200 agilissime pagine dal titolo Quitaly una serie di gag sull’Italia che purtroppo non sono gag, ma la realtà. Nessuno sa che faccia abbia, ma il blogger, reporter, conoscitore delle italiche sfaccettature come pochi altri riesce a fornire una serie di quadretti che possono farvi sciogliere dalle risate o farvi piangere mentre fate le valigie per lasciare la penisola, a vostra scelta.

Schermata 2015-01-09 alle 10.44.36

Quitaly è ben spiegato sul sito di Vice, di cui Quit the Doner è una delle firme, e in pochi mesi ha meritato due edizioni. Dai raduni degli alpini che inneggiano a “Papa Francesco, uno di noi” tra i fumi dell’alcol e le palpate alle ragazze, ai beach party salentini dove si spiega che i social sono una religione, solo predicata per altri mezzi. Dai complottisti delle scie chimiche che hanno capito chi è il responsabile occulto dietro tutto (tutto!) al declino del botox e della sua miglior macchina promozionale, con sede in decadenza ad Arcore. Ci troverete le manie dei selfiesti che postano autoritratti come chicchi in una grandinata d’estate, gli incatenati della Herbalife, la presa di coscienza che da noi si vendono più tatuaggi che libri. Si trova perfino una citazione del nostro Huffington Post e un consiglio per una mangiata memorabile sull’Appenino emilano. Se vi servissero due referenze in più sull’autore: è tra gli scomunicati ufficiali di Grillo e il disegnatore Gipi gli ha disegnato apposta una splendida copertina. Non perdetevi questo libro, è pieno di chicche memorabili che tra venti anni potrebbero essere storia.

RIcapitolando, cercate risposte sul futuro dell’Italia, dal paesaggio a qualche consiglio di ordinaria sopravvivenza? Queste letture vi aspettano.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Stèphane Charbonnier di Charlie Hebdo: le parole premonitrici

Stèphane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo, dichiarava nel 2012:

Dipingi un Maometto glorioso, e muori.
Disegna un Maometto divertente, e muori.
Scarabocchia un Maometto ignobile, e muori.
Gira un film di merda su Maometto, e muori.
Resisti al terrorismo religioso, e muori.
Lecca il culo agli integralisti, e muori.
Prendi un oscurantista per un coglione, e muori.
Cerca di discutere con un oscurantista, e muori.
Non c’è niente da negoziare con i fascisti.
La libertà di ridere senza alcun ritegno la legge ce la dà già, la violenza sistematica degli estremisti ce la rinnova.
Grazie, banda di imbecilli.

Schermata 2015-01-09 alle 00.58.47

Peins un Mahomet glorieux, tu meurs.
Dessine un Mahomet rigolo, tu meurs.
Gribouille un Mahomet ignoble, tu meurs.
Réalise un film de merde sur Mahomet, tu meurs.
Tu résistes à la terreur religieuse, tu meurs.
Tu lèches le cul aux intégristes, tu meurs.
Pends un obscurantiste pour un abruti, tu meurs.
Essaie de débattre avec un obscurantiste, tu meurs.
Il n’y a rien à négocier avec les fascistes.
La liberté de nous marrer sans aucune retenue, la loi nous la donnait déjà, la violence systématique des extrémistes nous la donne aussi.
Merci, bande de cons.

Stèphane, nove suoi colleghi e due poliziotti sono stati massacrati oggi.

Schermata 2015-01-08 alle 02.10.47

11 good news per l’ ambiente 2015

Il 2015 sarà un anno migliore del precedente per le good news di ambiente e ricerca? Nessuno lo sa, ma mi ha impressionato sentire citato l’ambiente anche nel discorso di congedo del Presidente Napolitano. Così ho scelto 10 notizie di buon auspicio per ricordare il 2014 in modo positivo. Mi scuso per l’arbitrarietà della scelta, è solo un modo per leggere, tra le righe e le date, che con la buona volontà qualcosa di buono si può sempre fare. I buoni esempi, si sa, sono spesso contagiosi, tanto più se li si considera messaggi di speranza.

Le 10 Good News del 2014.

1. L’ONU ha ufficialmente condannato la caccia giapponese alle balene. Stop dunque alla farsa della ricerca scientifica che nasconde invece la caccia ai cetacei nelle zone antartiche.

2. La bici si piazza al primo posto tra i mezzi preferiti dagli italiani assieme alle moto. Non è purtroppo un indice riferito alle scelte quotidiane ma alle preferenze nei sondaggi. La parte positiva della dichiarazione è che l’attitudine a spostarsi e a fare vacanze in bici è effettivamente in crescita.

3. Matera sarà la Capitale Europea della Cultura 2019. La città dei sassi e delle chiese rupestri richiamerà l’attenzione del continente e dei molti italiani che ancora non la conoscono. Sarà anche l’occasione per scoprire una delle regioni della penisola meno conosciute.

4. L’Uomo è riuscito a far atterrare un oggetto su una cometa.
Con l’acquisizione di nuove conoscenze di un corpo spaziale semplice, si riaccende il dibattito sull’ambiente complesso della Terra e in particolare sulla formazione degli oceani.

5. L’Italia è prima, davanti alla Germania, nello sfruttamento dell’energia solare, che si avvicina ora al 10%. La nostra nazione si afferma al settimo posto nella classifica dello sfruttamento energetico rinnovabile procapite (eolico+solare).

6. Lego abbandona lo storico partner Shell grazie alla campagna di Greenpeace che denuncia la politica scellerata di esplorazione artica del colosso petrolifero.

7. Lo strato di ozono si rafforza e il buco sembra restringersi dopo una tendenza contraria di decenni. Non è un invito ad abbassare la guardia ma un incoraggiamento a incrementare le azioni comuni indotte dai vari stati, prima fra tutti la Comunità Europea.

8. Fabiola Gianotti è la prima donna e la prima italiana a dirigere il CERN di Ginevra.Il riconoscimento ha una grande rilevanza per i cervelli italiani che, nonostante un clima non certo favorevole alla ricerca, riescono ad affermarsi ai massimi livelli. Spero che il messaggio aiuterà a dare voce ai molti scienziati che ogni giorno raccontano il nostro paesaggio e i suoi mille problemi proponendo soluzioni.

9. Si rafforza Ozoshare, il sito dedicato a chi ha qualcosa da raccontare sull’ambiente.Le comunità che lo compongono sono ancora molto incentrate sul mondo anglosassone, ma gli spunti per approfondire e condividere stili di vita sostenibili non mancano. La potenza del messaggio sta tutta nella possibilità di trovare persone con la stessa passione per stili di vita verdi.

10. Chiudo con una notizia che è anche una cartolina di buon auspicio. Orso e lupo sono tornati sulle Alpi lombarde, cuore della catena montuosa assediata da milioni di abitanti. Il messaggio di speranza è nelle parole del ricercatore Mauro Canziani.

Nel secolo che ci separa dalla loro estinzione su scala locale, sono scomparse le taglie e i premi concessi per l’abbattimento delle cosiddette “bestie feroci”. I boschi hanno in parte riguadagnato i loro antichi spazi. Gli ungulati selvatici – anche grazie a programmi di reintroduzione – hanno conosciuto un deciso incremento e la presenza dell’uomo, che un tempo interessava gran parte dello spazio alpino, ha lasciato posto a silenziose montagne dove trovare riparo invernale o allevare i propri cuccioli.

11. Vi lascio anche una fiaba che racconta di riciclo e di rispetto. E’ stata scritta con l’aiuto di due bambini, spero vi piaccia. Condividere un augurio con una favola è un messaggio per tutte le età. Buon 2015.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

La fiaba di Ferrino nella grotta della Strega Bavosa

Questa fiaba è diffondibile liberamente con qualsiasi mezzo citando la fonte:  www.stefanopaologiussani.it

 

E’ divisa in sette capitoli, come le sette sere di festa che ci separano dalla notte di San Silvestro.

 

©2013  Francesco, Matteo e Stefano Giussani – AgenziaGeografica

 

1

Ormai era una settimana che nevicava fitto fitto. Così fitto che gli alberi non ce la facevano più a reggere il peso e i rami facevano a gara per appoggiarsi a terra e non rischiare di rompersi. Ne era scesa talmente tanta che tutto era imbiancato e il soffice della neve si era mangiato perfino i rumori creando un mondo sottovoce.

Per questo, il TOC TOC sulla porta risuonò forte in tutta la casa. Nicolò chiuse di fretta il libro per vedere chi aveva sfidato la tormenta venendo a bussare alla loro porta, l’ultima prima del bosco. Si fermò sui primi gradini della scala, da dove vedeva Mattia che aveva raggiunto l’uscio prima di lui. Mattia era più grande di tre anni e ovviamente era stato più veloce. La porta aperta a metà lasciava intravedere un uomo con dietro la cascata di fiocchi che non smettevano di scendere.

Quando l’uomo domandò qualcosa e Mattia si fece da parte guardando verso la scala, anche Nicolò si girò e, non vedendo più nessuno dietro di sé, capì che il visitatore era venuto a chiedere proprio di lui.

Era Zanzone, il sindaco del paese, e teneva in mano un pacchetto. Raccontò che era successa una cosa molto strana. Dall’inizio della nevicata nessuno aveva più notizie di Ugo e Teo, i due giocattolai che abitavano nella casa a forma di torre vicino alla chiesa. Mandavano giocattoli in tutto il mondo vendendoli ai più bei negozi delle grandi città. Tutti facevano a gara per comprare i loro lavori e i due erano ben contenti di spedirli ovunque guadagnando. Se normalmente i loro giocattoli erano ben pagati, avevano però preso l’abitudine di regalarli ai bambini della loro valle. Nessun bambino viveva con loro, ma non c’era bambino in paese che non avesse ricevuto in regalo qualcosa fatto con le loro mani. Treni, bambole, carri, mulini. Non c’era oggetto che i due non sapessero riprodurre e ogni bambino e bambina delle sette frazioni sotto il monte Piangallina sapeva che, al compiere dei 9 anni, avrebbe ricevuto il suo regalo. Erano oggetti speciali, bellissimi, anche se erano fatti con gli scarti che la gente abbandonava o buttava.

«Tutto può avere una seconda vita» diceva sempre Ugo.

«Sta solo nel vederla con altri occhi» aggiungeva Teo.

Così giravano per cantine, solai e fienili a raccogliere oggetti abbandonati da trasformare. Dopo che passavano loro, quasi nulla andava buttato. La cosa straordinaria era che il giocattolo che veniva regalato diventava poi un’anticipazione del lavoro che ogni piccolo avrebbe fatto da grande. Chi aveva ricevuto in passato un forno fatto con dei vecchi scaldaletto era poi diventata la più brava pasticciera della capitale. Il bambino a cui avevano regalato un ponte costruito con le molle di un letto era ora un bravissimo ingegnere. La nave ricavata da un antico ferro da stiro era nella cabina di quello che nel frattempo era stato nominato capitano della più grande nave della flotta nazionale.

Ora erano spariti. La loro casa vuota. Il magazzino dei materiali deserto. La stanza degli arnesi senza più niente dentro. Niente, se non un burattino sbilenco fatto con tubi e bulloni e un biglietto con una scritta in una calligrafia strana che diceva “lui ci servirà perchè perfino un mostro sa crear” con a fianco un nome.

Nicolò!

2

A Nicolò mancava ancora un giorno per i suoi nove anni e il regalo che gli spettava. Perché se ne erano andati proprio ora? Zanzone non aveva risposta, ma credeva che incontrare Nicolò potesse aiutarlo in qualche modo. L’uomo attraversò il locale lasciando una scia di neve sul pavimento in legno. A vederlo col suo cappotto lungo e la corporatura massiccia, si aveva la sensazione  che si fosse messo a camminare uno dei covoni in paglia che in estate si vedevano in mezzo ai campi.

Tolti gli scarponi, davanti alla stufa accesa i piedi di Zanzone stavano scaldandosi mentre dalla cucina arrivava il profumo dei biscotti che la mamma aveva appena sfornato. Nella calza destra c’era un grosso buco che lasciava uscire il grasso dito e faceva ridere Mattia mentre Zanzone raccontava i dettagli. Mentre parlavano, il burattino in metallo era appoggiato a fianco alla stufa e la luce del fuoco faceva vibrare la sua ombra dando l’impressione che si muovesse per ascoltare quel che veniva detto.

“Quello non può essere il mio giocattolo” pensava Nicolò, perché non solo l’ometto era brutto, ma non rappresentava nulla, e poi nessun regalo era mai arrivato prima del nono compleanno.

I pensieri accompagnarono Nicolò fino al suo letto. Aveva smesso di nevicare e la luna, che era sorta da dietro la montagna, allungava sul pavimento il quadrato della finestra fino all’angolo dove aveva appoggiato quel tubo arrugginito coi bulloni al posto delle gambe e delle braccia e due dadi come occhi.

“Non hai neanche un nome, pezzo di ferraglia”, pensava il bambino. «Sei solo un piccolo pezzo di metallo. Ti chiamerò Ferrino» sussurrò il bambino appena prima di addormentarsi.

La notte trascorreva nel silenzio più assoluto della camera dei due fratelli quando un ticchettio leggero si diffuse per la casa. Era un rumore come quello della pendola giù in sala, solo più irregolare del solito tic tac e fatto da un tic-shhh-tic-shhh, come se tra un ticchettio e l’altro ci fosse qualcosa che strisciava. Al bambino sembrava di aver sognato tutto. Solo a un certo punto della notte, svegliandosi per andare a fare pipì, si rese conto che Ferrino era sparito.

Mattia dormiva al piano sotto del letto a castello e non aveva sentito nulla. Quando Nicolò iniziò a strattonarlo, gli disse sbadigliando di non disturbarlo, che ci avrebbero pensato domani mattina.

Bello o brutto, Nicolò era convinto che il burattino fosse suo e non era disposto a perderlo così. Decise di scendere da basso. Notò subito che l’uscio era chiuso ma lo sportello del gatto era solo accostato. Affacciandosi sulla stanza della stufa vide Smer sul davanzale muovere la grossa coda e alzare la testa facendo brillare gli occhi nel buio. Oltre il vetro, il vialetto era ricoperto tutto di bianco, ma si distingueva una striscia di piccole impronte che puntavano dritte al Bosco Alto.

Nicolò odiava quel bosco. Ci si era perso da piccolo e avevano dovuto venire a cercarlo gli uomini del paese, che lo trovarono solo al mattino. “Se credi che il bosco dorma, è solo perché non ci sei mai stato dentro di notte” pensava da allora ricordando i tronchi che si lamentavano tra gli scricchioli e un sacco di altre cose che strisciavano, grattavano, mugolavano, ansimavano attorno a lui. Se quello sgorbio di burattino se ne era andato nel bosco non gli interessava, pensò ritornando sotto le coperte e apprezzando che i suoi piedi sentissero di nuovo il tiepido del piumone.

Riaprì gli occhi convinto di aver dormito tutta notte, ma l’ombra della finestra era cambiata solo di poco e al posto di Ferrino c’era Smer. Nicolò lo stava fissando con la testa appoggiata al cuscino quando con un gesto della testa puntò il naso verso la finestra, in direzione del Bosco Alto. Si affacciò ma ancora non vide nulla, se non la sagoma degli alberi che sembravano un esercito di soldati schierati per proteggere l’ultima parte della valle, quella oltre la quale c’erano solo pascoli e rocce senza nessun rifugio. Gatto e bambino stettero a fissarsi per un po’, zitti.

«Va bene, andiamo a cercarlo ma solo fino alla salita» sussurrò a Smer indossando sopra il pigiama tutte le cose pesanti che gli capitò di prendere dal cassetto.

3

Gli piaceva il profumo dell’aria dopo la nevicata. Il mondo sembrava più pulito. La luna colorava d’argento tutto e non c’era quasi bisogno della lampada per seguire le tracce di Ferrino, almeno fino al punto in cui erano ingoiate dal buio del bosco dove iniziava la salita. Smer lo precedeva affondando la sua larga zampa pelosa nel manto bianco.

Arrivati ai primi alberi, non fece in tempo a dire «io lì non entro!» che con un balzo il gatto era già scomparso oltre i cartelli che indicavano la salita del monte Piangallina e la via per il passo di Ventifreddi.

«Smer, non fare stupidaggini, torna». «Smer, ti prego». «Smer non così», disse per un po’ di volte.

«Smer ho paura», aggiunse con la voce tremolante. Il bosco la assorbì nel silenzio rotto solo dal tremore dei cristalli di neve sui rami. Voltandosi verso la casa, però, non gli sembrò tanto lontana. Il lampione giallo di fronte all’uscio era un rassicurante ombrello di luce in fondo al sentiero. Da quando si era perso nel bosco, era ormai trascorso un po’ di tempo e ora era cresciuto. Poteva dunque provare ad entrare, ma solo il tempo per trovare Smer e tornare veloce a casa, prima che si accorgessero della sua assenza. Bastò qualche passo per immergersi nel nero più assoluto squarciato solo dalla sua lampada. La foresta era silenziosa come non aveva mai notato prima. Sembrava quasi un altro posto. C’era anche molta meno neve che era invece sostituita dagli aghi di pino che rendevano morbido il camminare. Continuò fino a una radura dove fu sfiorato da un fruscio, FSSSHHHHH, seguito da una sagoma scura, che si fermò appena oltre lui. Il cuore gli andò in gola congelando ogni sua mossa. La fetta di luce che usciva dalla lampada illuminava Smer immobile dove finivano le impronte di Ferrino, circondate da molte altre grosse impronte che appiattivano il bosco mostrando il marrone della terra ben aggrappata alle radici dei grossi alberi.

«Ma sei pazzo? Mi hai fatto prendere paura. Andiamocene ora, che torniamo domani». Nicolò si stava chinando per prendere in braccio Smer quando sentì un altro rumore accompagnato da uno spostamento d’aria, prima sulla testa, poi alle sue spalle.

Non ebbe il coraggio di voltarsi.

4

«Uhu, i bambini non dovrebbero venire nel bosco da soli, menchemeno la notteuuu», disse improvvisamente una voce profonda come non aveva mai sentito. Stava rimpiangendo il suo letto, l’essere uscito, la camera calda, Mattia che lo avrebbe difeso. Qualsiasi cosa gli stesse parlando, avrebbe voluto non essere lì.

Si girò lentissimo, così lento da non ricordare quanto ci avesse messo, sperando che nel frattempo quella voce non ci fosse più. Si trovò di fronte agli occhi più grossi che gli fosse mai capitato di vedere. La pupilla era un taglio nero in due sfere gialle enormi in cui si specchiavano ricurvi lui, Smer, la lampada e tutto il bosco attorno. Le piume che li circondavano erano appuntite sulla testa a formare due orecchie aguzze mentre un disegno più chiaro convergeva verso il becco che terminava in una punta affilata. Non credeva che un gufo reale potesse essere alto come lui.

«S-s-s-s-scusi, io non-non-non volevo», fu la prima cosa che gli uscì dalla bocca.

«Volere o uhu non volere. Ormai sei qui e quuuuualcuno ti vuole parlare». Fu in meno di un istante che, wussshhh, le ali del rapace si spalancarono per allungare le zampe verso Nicolò e Smer e sollevarli da terra. Il bambino non fece in tempo a spaventarsi nel sentire i grandi artigli avvolgergli la pancia e la schiena. In pochi colpi d’ala erano già sopra il bosco e sentiva le grandi superfici di piume guadagnare quota sulla montagna. Nicolò tremava, ma Smer al suo fianco si godeva il volo. I pini che avevano già perso la neve, dall’alto sembravano delle stelle. A un certo punto il bosco finì e cominciarono le praterie imbiancate dove i ruscelli cristallizzati attraversavano la montagna come se stessero gocciolando rugiada. Il paese giù in basso era ormai solo un gruppo di fiammelle tremolanti come le lucciole in estate tra i campi.

Sotto la luna, più di tutto brillava il ghiacciaio che ormai era vicinissimo. Il gufo aveva smesso di salire e ora stava planando verso i picchi che, dalla casa, gli avevano sempre ricordato un castello. Solo avvicinandosi scoprì che lo erano davvero. I muri massicci si confondevano con la roccia e le torri spuntavano sopra tutto ma non erano abbastanza alte da eguagliare il palazzo che fino a poco prima aveva creduto essere la cima della montagna. Fu in quel momento che due puntini in basso presero vita diventando due grandi orsi bruni coperti da corazze che brillavano più del ghiaccio che li circondava. Insieme spalancarono la porta così larga che, wussshhh, il gufo ci atterrò dentro con le ali aperte appoggiando Smer e Nicolò di fronte a una scalinata con una donna bellissima in cima. Ancora più della bellezza lo stupì che il suo vestito era fatto di un velo d’acqua che continuava oltre il suo corpo e scendeva a ricoprire i gradini lisci come la fontana in paese.

«Benvenuto Nicolò, vi aspettavo – disse dal suo trono la donna allungando una ciotola di latte verso Smer, le gambe e le braccia erano lunghissime e potevano raggiungere ogni angolo della grande sala senza doversi alzare – sono Stellea, regina della montagna e ho fatto in modo che arrivassi qui perché abbiamo bisogno del tuo aiuto». Solo mentre parlava, Nicolò fece caso che c’era Ferrino seduto sul gradino più alto, proprio a fianco al trono. Tenendo le sue braccine di bullone tra le gambe, sembrava preoccupato in attesa di avere una risposta a qualcosa.

5

«Abbiamo bisogno della sincerità di un bambino – continuò Stellea – Ti stai chiedendo perché proprio tu?». In effetti Nicolò se lo stava domandando ma lei parlava come se potesse leggere il suo pensiero. «Perché già una volta hai conosciuto il Bosco Alto di notte. Così sono sicura che puoi superare il compito che sto per affidarti».

Compito? Un compito era l’ultima cosa che il piccolo si aspettava lì. «Non è un compito come quelli soliti della scuola, quelli che tutti possono risolvere. È un compito speciale per un bambino speciale. Nelle caverne sul retro della montagna vive la strega bavosa. Ormai non frequenta più nessuno e crede che nessuno la voglia più perché è vecchia. Così ha rapito i giocattolai, convinta che quando le avranno insegnato a fabbricare quello che i bambini desiderano, lei potrà avere tutta la compagnia che vuole e decidere chi sarà felice e chi no. Ti chiedo di andare a parlarle. Solo la voce di un bimbo può arrivarle dritta al cuore». Nicolò non fece in tempo a domandare come avrebbe raggiunto la caverna quando sentì il dorso della mano toccato dal pelo di un grosso animale. Girando la testa si accorse della presenza di un lupo grigio. Ne sentiva il respiro caldo, lo aveva affiancato assieme ad altri due, alti quasi fino alla sua spalla. Quello che sembrava il capobranco aveva una sella in velluto nero. Gli altri invece avevano un imbrago con tre tasche su ogni fianco. Ogni tasca era piena. Guardando meglio, notò che il fagotto di peli scuri che riempiva ogni tasca aveva due occhi neri e piccoli come due capocchie di spillo e un naso a punta sollevato verso l’aria.

«Le talpe ti aiuteranno quando sarai nel cuore della montagna e Ferrino verrà con te – disse la regina allungandogli il burattino fino alla sella sul lupo – lui è la prova che i bambini non possono perdere i loro sogni senza sprofondare nella tristezza».

Si incamminarono. I lupi conoscevano bene gli anfratti della montagna, ogni volta che i massi dividevano i sentieri, il capobranco imboccava senza esitazione un passaggio. Le rocce scorrevano veloci ai fianchi di Nicolò mentre con le mani si teneva al pelo dell’animale e sentiva gli spigoli di Ferrino pungere nella cintura. Le zampe felpate delle belve scivolavano sicure e zitte sulla traccia, fino a un punto in cui gli animali rallentarono per fermarsi e annusare l’aria. Quando si accucciarono, Nicolò poté di nuovo toccare terra. Erano di fronte a una parete più alta del campanile della chiesa. Una grossa crepa a forma di saetta la spaccava in due. All’improvviso fu investito da un gracchio seguito da uno sciame di pipistrelli. Fece appena in tempo a girarsi per trovarsi circondato e sentirsi sbattere alcuni di loro contro la schiena, ma riuscì a non gridare, rassicurato che i tre lupi fossero rimasti lì senza mostrarsi troppo preoccupati. La calma dei movimenti e lo sguardo del capobranco gli dicevano che poteva fidarsi. Qualsiasi cosa sarebbe successa, loro sarebbero stati lì ad aspettarlo.

Intanto le talpe erano scese e si erano allineate di fronte alla fessura come a formare un grappolo di palle di pelo lungo tanto quanto Nicolò da sdraiato. Stava guardando quello strano tappeto quando il naso del lupo grande lo spinse delicatamente verso gli animaletti.

«Devo cavalcarle?». Il lupo mosse la testa in un sì. Nicolò raggiunse allora la formazione di animaletti e ci si sdraiò sopra, provando la sensazione di un materassino fatto di palloncini. Quando il tappeto iniziò a muoversi si rese conto di come le talpe riuscissero a scivolare dappertutto, muovendosi sotto di lui come un torrente in piena e facendolo galleggiare sul pelo.

6

Nei punti più stretti avanzavano lungo la caverna e Nicolò a pancia in giù sentiva la volta sulla schiena. In altri momenti doveva aiutarsi come nuotando, toccando le rocce che a tratti erano umidicce o rivestite di muschio. Quando sembrò che non potevano andare oltre, un ultimo passaggio lo costrinse a scendere dalle talpe e a strisciare, con due animaletti davanti a fare strada e gli altri dietro a spingerlo. Li sentiva respirare forte con i cuori che battevano veloci per la fatica. Arrivarono a un improvviso slargo illuminato da una luce soffusa che scendeva dall’alto e creava delle ombre in movimento sulle rocce. Un ombra in particolare camminava sulla parete. Ansimava e produceva il sibilo fastidioso di una bocca malforme. Le talpe si alzarono in piedi e si disposero in cerchio attorno a Nicolò, alzandosi sulle zampe posteriori e formando una corona di artigli con le loro grosse unghie abituate a scavare.

«Cosa vuoi?», domandò una voce gracchiante che sembrava venire da ovunque.

«Parlarti».

«Io non voglio parlarti», tra una parola e l’altra la voce emetteva una specie di gorgoglio, non era armoniosa né rassicurante come quella della regina.

«Ti chiedo scusa se sono entrato qui – la testa di Nicolò continuava a spostarsi per seguire l’ombra – mi manda la regina», aggiunse.

«Buona quella, capace solo di fare la signora, là sulla sua cima che tutti si divertono a salire». Nonostante l’ombra non rimanesse ferma, la voce continuava ad arrivare indistinta.

«Mi manda a dirti che tutti i bambini hanno bisogno dei loro sogni», mentre parlava si rese conto che l’ombra ingobbita della strega ad ogni passaggio sulla parete lasciava una scia gocciolante come la bava delle lumache sulle foglie.

«E perché dovrei ascoltarti?». L’ombra allungava le dita sottili nell’aria ricordandogli le punte dei rami secchi degli alberi in inverno. Sulla parete opposta Nicolò riconobbe le sagome di Ugo e Teo, chini su un tavolo a lavorare con delle catene ai piedi. Tra le parole, l’eco delle gocce scandiva il tempo e l’odore di umido.

«Perché domani compirò nove anni e senza il mio giocattolo non sarò felice come gli altri bambini».

«E perché uno dovrebbe essere felice?».

«Perché è meglio essere felici che tristi, cioè – Nicolò pesava le parole stando attento a pronunciarle verso la strega – il mondo funziona meglio se lo si è. Pensa alle facce dei bambini che non possono avere più giocattoli. Smetterebbero di essere contenti… e se noi smettiamo di ridere, chi guarderete voi grandi per capire il bene che si prova quando si ha quello che si desidera?». L’ombra allungò la mano per afferrare la testa di Nicolò.

7

Le talpe si strinsero ancora di più attorno a lui, al punto che il bambino avvertiva il calore del pelo. Stretto nel gruppo, Nicolò sentì pungere il fianco e si ricordò di Ferrino. Essendo di metallo poteva usarlo per difendersi. Chinando la testa per evitare le dita gocciolanti della strega, lo estrasse dalla cinta e lo impugnò come se fosse una spada. Il collo era l’impugnatura e le gambe appuntite verso l’ombra erano le due lame. Appena ferro e ombra entrarono in contatto, le dita della strega si ritrassero.

«Cos’è questo?», domandò con voce sofferente.

«La mia arma, disse vergognandosi di quanto fosse brutta. Nel momento in cui Nicolò alzò Ferrino, dal tubo che era il suo corpo iniziò a uscire un cono di luce che colpì la parete. Nel riquadro illuminato iniziarono a scorrere immagini. Bambini che ridevano, giocavano, correvano in campi d’estate, facevano pupazzi in inverno. In tutte le scene non c’era un adulto che non sorridesse contagiato dal buon umore. Da Ferrino continuavano a uscire storie e, mentre prendevano forma, la grotta si faceva meno buia e si propagava il colore dei prati quando fioriscono, che non sono un colore solo ma tutti i colori assieme. Più fiori spuntavano dall’umido della roccia e meno Ferrino sembrava il pupazzo arrugginito che Zanzone aveva portato. Quando la grotta fu completamente tappezzata di petali, la bava era diventata rugiada e Nicolò si ritrovò all’improvviso nel proprio letto con a fianco la mamma e Mattia.

Si fissarono in silenzio.

Per terra nella stanza c’erano i suoi vestiti con attorno una pozzanghera d’acqua mentre fuori dalla porta si intravedevano Ugo e Teo che tenevano in mano un burattino che da lontano pareva simile per proporzioni a Ferrino. I giocattolai alzarono la mano per salutarlo e Nicolò rispose con lo stesso gesto. Visto da vicino, il burattino era un uomo massiccio e tutto snodato che indossava una specie di corazza che gli faceva spuntare un terzo braccio, snodato come il corpo. All’estremità c’era una scatola magica con un lato trasparente, appena presolo in mano iniziò a uscire un fascio di luce che proiettava oggetti animati sulle pareti vicino.

Nessuno aveva mai ricevuto un giocattolo così. La gente ne parlò a lungo.

La notizia fu perfino più importante di quella dei cacciatori che raccontavano di aver avvistato le impronte di tre grossi lupi nella neve fresca all’indomani della tormenta. Gli uomini coi fucili avvisavano di stare attenti, ma tra le case furono tutti impressionati dalla voce di quel bambino, persosi nel bosco anni prima, che invece rassicurava tutti dicendo che lui, di lupi così, non avrebbe mai avuto paura. E per aiutare la gente a capire cosa intendesse, girava le case mostrando il regalo del suo nono compleanno che proiettava a tutti immagini dei lupi, ma anche di orsi, talpe, gufi e uomini che vivevano insieme e in pace tra loro. La gente si sentiva subito più tranquilla e nel godersi la bellezza delle immagini pensava al bosco come alla preziosa cornice del loro paese. Tutti erano sicuri che quello successivo sarebbe stato un buon anno.