Il trenino rosso, far west fuori porta

Avrete già sentito parlare del trenino rosso della Retica. Scrivo questo post da Poschiavo (Svizzera, Canton Grigioni) dove stiamo girando un documentario proprio sulla Bernina, come la chiamano qui per riferirsi alla linea ferroviaria, che è anche quella che raggiunge la quota più alta in Europa senza essere aiutata da una cremagliera.

Niente è facile quando il vento sferza tagliente, come spero renda la nostra foto di backstage scelta da VisitSwitzerland per il proprio profilo Instagram.

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Però proprio per questo vi consiglio un giro qui. Potreste scoprire come questi uomini si impegnano ogni giorno per mandare avanti un treno che per la sua audacia e per la sua bellezza è stato anche incluso nel World Heritage di Unesco.

Questi non hanno paura degli agenti atmosferici. Sono valligiani, quindi gente schietta abituata a dare pane al pane e vino al vino. Ma con la nostra troupe si sono aperti e con loro stiamo condividendo le giornate. Probabilmente se la ridono pure a vedere noi cittadini che andiamo su, li microfoniamo, li riprendiamo, ascoltiamo i loro discorsi, ma sopratutto impariamo come ancora ci sono luoghi dove a comandare è la natura. Condividiamo spesso con loro la riunione prima dell’alba, in tempo per il treno delle 6.28 che li porterà sui cantieri lungo la linea. Cosa fanno? Puliscono scambi, staccano stalattititi di ghiaccio dalle gallerie, sostituiscono binari, spalano neve, tagliano tronchi, fanno altre cosucce che non vi svelo ora per non rovinarvi la sorpresa del documentario. In poche parole, curano il backstage dello spettacolo ferroviario più avvincente d’Europa.

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L’altra mattina mi sono unito a loro durante lo Snüli. A Milano si chiamerebbe coffee break e si consumerebbe di fronte alla macchinetta del caffè in un corridoio asettico. Qui l’intervallo lo abbiamo fatto nel bosco. I ragazzi hanno radunato i rami e acceso un fuoco, per poi tirar fuori dei würstel e mangiarli dopo averli cotti infilzati con i rami dei pini attorno. Il profumo della foresta che si mescolava alla brace e alle spezie ve lo lascio immaginare.

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Quello che non potete immaginare è la bellezza di questi luoghi attraversati dai binari. Il far west che sognavo quando ero bambino è (anche) qui. Se volte passarci a trovare, con il mio regista Valerio Scheggia e l’operatore Paolo Negro facciamo tappa allo Chalet Stazione. È la casa in legno di Serena e Stefano ma è anche la casa dei nostri train men che qui trovano sempre caffè e un pasto caldo a pochi metri dai binari. Alla sera, passato l’ultimo treno, si gioca con la loro bambina Angelica. Giovedì scorso abbiamo imparato a disegnare cani e gatti. Poi sono arrivati i pizzoccheri. Come li cucinano qui sono una combinazione magica tra l’essere valtellinese di Serena e il rispetto della tradizione dei nonni di Stefano che erano di Teglio, patria della pietanza alpina lombarda.

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Se vorrete fermarvi ci sono delle stanze, così sarete pronti anche voi a saltare sul primo treno del mattino per risalire il Passo del Bernina. Boschi, laghi, ghiacciai scivoleranno senza fretta dai finestrini e rimarranno negli occhi mentre le carrozze arrancano lente dando modo di perdersi tra le montagne. L’avventura passa anche da qui ed è tutt’altro che scontata.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post con una ricca galleria fotografica. Per informarsi sugli orari del trenino rosso o prenotare i posti suggerisco di muoversi per tempo, i posti sono limitati.

Albero di Natale: il primo regalo fatelo alla Natura

Il prossimo fine settimana sarà probabilmente quello in cui vi dedicherete all’albero di Natale. Il rito si rinnova ma la natura non sempre ringrazia. Per evitare la strage di pini e abeti abbandonati a fianco dei cassonetti dopo il 6 gennaio, un agricoltore francese ha ideato l’albero in affitto.

Tre quarti dei cinque milioni di pini venduti in Francia per le festività sono destinati alla pattumiera e quindi non possono essere riutilizzati neppure per fare compost per il terreno. Per questo noi affittiamo gli alberi in vaso, in modo da rimetterli sul mercato per quattro o cinque anni e poi piantarli a terra per il rimboschimento del territorio.

Il progetto pare funzioni e l’idea andrebbe clonata. Vero è che ognuno di noi potrebbe, dismesso l’albero, riportarlo al vivaista che sarà probabilmente contento di riprenderlo per ripiantarlo o farne del compost. Non monetizzeremo la restituzione ma rimarrà la soddisfazione dell’albero che non marcirà solitario in una pattumiera.

In alternativa, penso vada valorizzata l’dea di inventarsi un albero di Natale riciclando materiali originali. Vi invito a non pensare al concetto di rifiuto quanto a quello di valorizzazione. Tra l’altro si risparmia pure. Si possono richiamare le forme del simbolo natalizio in moltissimi modi sfruttando materiali in modo anticonvenzionale. Daranno un’impronta originale alla festività e dopo 11 mesi torneranno pure utili se deciderete di bissare. Ci si può cimentare con le scatole delle uova, i fondi delle bottiglie di plastica, legnetti trovati in spiaggia, vecchie scatole , guide telefoniche, cuscini, libri, lucine a led, tappi di sughero. Sbizzaritevi, siamo quelli che hanno fatto il Rinascimento!

Troppo? Non credo. Forse è anzi un modo per dimostrare e dimostrarci che siamo ancora un popolo di creativi e che la fantasia ha un valore aggiunto che può diventare magico come solo certe notti di Natale sanno essere. Auguri!

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

 

Eternit: l’ecologia del camaleonte

La brutta storia dell’Eternit sembra essere finita nel nulla. La sentenza di prescrizione vanifica la protesta di quanti sono rimasti a piangere le vittime di questo materiale che aggiunge alla morte un senso di incognito legato alla letalità, che può manifestarsi anche dopo 30 anni dall’aver respirato quella sostanza che nessuno ci aveva detto cosa provocava. Non stia tranquillo chi non ha lavorato nella fabbrica della morte. Basta un singolo frammento ad ammazzarti. Significa, ad esempio, che io, mio fratello e tutti i nostri compagni che hanno frequentato il liceo di Monza dove il soffitto era in formelle di eternit siamo potenziali morti per amianto.

Dall’altra parte di tutto questo casino c’è un tranquillo signore svizzero che dal suo buen ritiro dorato dichiara di aver sposato la causa dell’ecologia e avoca a sé il merito di aver capito in tempo i rischi dell’eternit . Peccato che Stephan Schmidheiny è in realtà il signor eternit in persona, essendo stato il vertice proprietario del colosso industriale che gestiva lo stabilimento di Casale Monferrato. La verità è che all’epoca sembrava di aver trovato il materiale perfetto, con quel nome che grondava infallibilità e durevolezza, più o meno come il Titanic. Le vittime che la vana gloria dei mari fece nel colpo di una notte, il materiale in questione le ha moltiplicate negli anni in cui fu celebrato come l’uovo di colombo non solo dell’edilizia ma anche del design. Nel museo Toni Areal di Zurigo, dedicato alla creatività elvetica, c’è perfino un angolo a lui dedicato, senza una mascherina o un solo cenno alla pericolosità di quel che si sta osservando.

Tra le tante posizioni lette in questi giorni ho apprezzato quella di Beppe Severgnini che dalle pagine del Corriere spiega perché siamo al caso di “innocenti per debolezza”. Il suo è un incipit che andrebbe scolpito davanti a qualche tribunale e a molte aziende, a partire da quelle finite su tutti i giornali.

Dopo ThyssenKrupp, Eternit. Una coincidenza che sa di beffa e provoca frustrazione. Nessuno chiede colpevoli per forza; ma neppure innocenti per debolezza. Debolezza delle norme, delle procedure, di chi deve applicarle. Umiliante: non c’è altro aggettivo per descrivere quant’è accaduto.

Con camaleontica sfrontatezza, Schmidheiny chiede ora protezione allo stato italiano per non essere più coinvolto in quelle che lui stesso definisce “processi ingiustificati”. Esca dal suo rifugio e venga a farsi un giro a Casale, Stephen. Ne abbiamo abbastanza di casi in cui l’industriale di turno rinnega il lavoro dei suoi sottoposti che han fatto disastri con persone e ambiente. Se la morte di un uomo è una tragedia, una sciagura in un antro polveroso, mille morti non sono una statistica asettica solo perché monitorate da un tabulato su una scrivania luccicante. In Italia, come nel resto del mondo, le tragedie vanno punite, non prescritte.

Mi piace il Lego, da oggi anche di più con Greenpeace e contro Shell

Lego, Shell, Greenpeace e un filmato avvincente pur nella sua brevità dimostrano che le petizioni servono. Ricordate la campagna di Greenpeace sulle trivellazioni della Shell nell’Artico? Lego ha ufficialmente deciso di non procedere alla pluriennale collaborazione col colosso petrolifero.

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A chi dovesse storcere il naso sull’ennesimo ecointegralismo, ricordo che le navi Shell si sono spinte talmente sottocosta da provocare già due inchieste. A prescindere dalle dichiarazioni e dalle indagini, bastano le immagini. Nel 2012 la Noble Discover si è quasi arenata fuori dal porto. Pochi mesi più tardi la piattaforma Kulluk è andata a finire sugli scogli dell’isola di Kodiak mentre, pare, la stavano facendo navigare alla svelta fuori dalle acque territoriali per motivi poco chiari.

Nessuno è così illuso da credere di poter puntare al 100% di rinnovabili a breve termine. Un minimo di ricerca di materie prime di origine fossile ci è dunque ancora indispensabile. Esattamente indispensabile come il senso di responsabilità per tutte le precauzioni perché nessuna Kulluk o Noble discover finiscano a combinare il disastro che per ora si è evitato. Quello spot della Lego è stato davvero a un passo dalla realtà. Il gioco ha aiutato a far capire che la Terra non può essere in gioco.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Mercatini di Natale: il più segreto è qui

Ormai è iniziato il conto alla rovescia per le feste di fine anno e tutto quello che queste comportano. Rispetto a quando ero piccolo, ben prima che i mulini diventassero bianchi, si è aggiunta la complicazione dei preparativi natalizi ingarbugliati attorno ai telefonini nel giro di chiamate frenetiche stile “cosa regaliamo a tizio?… e a caio?… a sempronio hai pensato tu?”… Io vi propongo, invece, una scelta drastica: rifugiarvi tra le montagne, fare delle passeggiate nella neve, trovarvi un eco-mercatino per pochi sentiti regalini e rintanarvi la sera in un albergo con zero segnale per disconnettervi dal XXI secolo. Troppo burbero? Forse, è solo la mia visione ma potreste scoprire che un Natale da orsi non è poi così male.

Montagne: scegliete quelle a cui siete affezionati, ne avrete sicuramente nel cuore alcune che vi rimandano subito al Natale. Le mie sono in Alto Adige, in una valle conosciuta quanto basta per essere raggiungibile senza le renne ma non fatta per le masse affezionate ai turistifici invernali. Vi suggerisco la Valle di Tures, con la sua continuazione della Val Aurina, è un solco che penetra dritta nel cuore delle Alpi e termina nel punto più a nord del Bel Paese. Sono posti dove, se vi attrezzate bene per l’Inverno, potete camminare sul sentiero di San Francesco di giorno e magari la sera salire in baita a farvi una mangiata. Copritevi bene però, perché la discesa qui si fa in slitta e, credetemi, slittare nel silenzio del bosco sotto la luna non è qualcosa che dimenticherete facilmente.

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Regali: muovetevi all’insegna della sobrietà. Tutti ci propongono il mercatino ‘in’ da non mancare”. Non cadete nella rete del marketing cinese, scegliete piuttosto uno dei mercatini locali, tra i pochissimi certificati “green”. Essere amici della natura significa anche ricordarsi di qualcuno con pensierini non appariscenti che dimostrino affetto sincero come il materiale che state regalando. Penso al legno, ai sassi, alla lana cotta. Nelle vie di Brunico, le bancarelle sono anche profumate di Vin Brulè. Ma c’è di più: nella casa del vecchio medico di Campo Tures si trova il mercatino più raccolto del Natale alpino.  In questa casa antica borghese, con un flair particolare e non lontano dal castello di Tures, uno dei più belli dell`arco alpino, avrà luogo nei pochi weekend dell`Avvento un piccolissimo mercatino di Natale disposto su 3 piani, con una Stube-Bar per un thè incluso, contadini che vendono le ciabatte per la casa fatti da loro di feltro, pizzi “a tombolo” della Valle Aurina, oggettini in legno e tutte quelle cose che fanno ancora più Natale. E`questa una meta degli stessi Altoatesini, stanchi dei grandi Mercatini affollati, che vanno nuovamente alla ricerca di una piccola ma autentica atmosfera dell`Avvento e del periodo prenatalizio.

Un tetto con la neve intorno: è un ragionamento complesso in merito al quale rischierei di farvi sorridere. Ho interpellato un po’ di alberghi chiedendo se c’era la possibilità di non avere linea o wifi. Non temo tanto me stesso quando lo pseudomanager o la valchiria informatica che si presentano in sauna con lo smartphone e nel bosco si lamentano che “non c’è campo”. In molti hanno frainteso la mia domanda credendo mi stessi accertando dell’opposto, cioè che ci fossero linea o wifi, così mi rassicuravano che non c’erano problemi. Tranne due sorelle, Ruth e Karin, che hanno capito perfettamente e mi hanno detto che da loro ci sono i giorni off line durante i quali il nostro corpo e la nostra mente possono sconnettersi. Indagando e andando a trovarle ho scoperto che le due gestiscono un hotel a impatto neutrale sul clima e, potrà anche sembrare uno spot ma non lo è, sono le uniche che garantiscono una certa ecologia che ci riporta a ritmi fatti di pace tra i boschi e riposo della natura. Organizzano weekend in cui le diavolerie elettroniche le lasci in reception. Perentorie, come due tedesche, le ragazze ci sanno davvero fare e i loro ospiti diventano amici. L’albergo è un gradevole esempio di design alpino contemporaneo, si mangia bene e la sua posizione tra bosco e borgo è davvero un pregio. 9b724b771f

Ottimo cibo, slittini e coccole: chilometro zero o poco di più. Guardatevi bene attorno. Ci sono ancora posti che sposano la tradizione senza farla pesare sul conto. Il formaggio, la pasta, il pane, il vino son fatti da facce riconoscibili, magari nella malga accanto, la stessa dove si può ritirare una slitta e scendere nel fruscio accarezzato dai pini. Anche questo fa parte della dieta, che in queste montagne è fatta anche di aria pulita e cose buone fatte con ingredienti semplici. Se pulito, buono e semplice, sono termini in cui vi riconoscete, allora l’inverno degli orsi fa per voi. Vi aspetto nel bosco.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

La ciclabile del domani

Dall’Olanda emerge una nuova combinazione tra mobilità sostenibile ed energie rinnovabili. La parte sulla mobilità la fanno le biciclette. La parte della rinnovabilità la fa la strada stessa dove un tratto di percorso è un grande pannello fotovoltaico. Siamo nei sobborghi di Amsterdam, su un tratto delle più frequentate ciclabili della più ciclabile città europea. L’asfalto è stato sostituito con un sistema di celle solari integrate nella copertura del manto stradale. Per i 70 metri realizzati si è spesa la cifra di 3 milioni di euro allo scopo di testare la resa. Considerando solo la cifra, il gioco non vale assolutamente la candela, tenuto conto anche che il piano stradale non è inclinato in modo ottimale per sfruttare l’irraggiamento.

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Da un altro punto di vista, però, la realizzazione di una strada così fatta – resa conveniente – potrebbe essere un modo per convincere davvero sull’ecologia dei veicoli elettrici. Oggi la propulsione elettrica è ecologica solo all’utilizzo e non ci si preoccupa molto di come è prodotta l’energia alla fonte. Una strada “solare”, invece, potrebbe creare energia dove ce ne fosse davvero bisogno, ossia dove i veicoli ne necessitino per la trazione stessa. Riuscendo a ridurre i costi, proviamo a immaginare quanto l’insieme delle strade di una regione assolata potrebbe produrre.

C’è stato un video virale che ha cercato di sensibilizzare gli americani sul tema rendendo ai due ingegneri titolari del progetto ben due milioni di dollari, spesi per industrializzare il progetto del modulo stradale solare. Tornando all’Olanda, dove l’irraggiamento non è certo tra i più alti d’Europa, stupisce la fede nel progetto innovativo. Non è che qualche mecenate del solare decide di guardare più a sud? Ci sarebbe uno stivale baciato dal sole ad aspettarlo e probabilmente qualche amministratore pronto ad accoglierlo.

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Godendosi le nostre strade, oltre che dai percorsi, rimarrebbe incantato probabilmente anche dalla creatività che ho notato al recente salone del motociclo: un veicolo elettrico che attinge alla squisita tradizione delle due ruote italiane ma con un sapore vintage. L’appassionato tecnico Enrico Farina ha creato la e-formidable, una moto che si presta alla cavalcata ecologica e che propone una combinazione irresistibile di accessori a tema, come un microgeneratore eolico sul cupolino per caricare lo smartphone e manopole biometriche per misurare le sollecitazioni del pilota. Mettici la doppia batteria per raggiungere un’autonomia di 130 km di autonomia e un’estetica davvero gradevole, ora sogno davvero solo la strada per alimentarla in modo pulito al 100%. Non vorrete mica che vada fino in Olanda.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Animali: la pet therapy televisiva non funziona

Gli animali in televisione portano sfortuna a chi li ostenta. La Littizzetto indagata per aver portato un maialino da Fazio, Insinna denunciato per un gufo reale ad Affari Tuoi, prima ancora ci fu la Bignardi con il cucciolo donato a Monti. Sono sicuro che riusciamo senza fatica ad allungare la lista di animali ostentati tra spettacolo, politica e social. Alzi la mano chi non ha visto in Facebook amici e amiche ‘selfial killer’ ritratti con l’animale di turno. A me certi animali saltano addosso e lo scatto con loro lo faccio volentieri, ma non è violenza. Forse sono loro che riconoscono la bestia e si fanno avanti.

Semmai andrebbe messo qualche paletto, anche tra gli animalisti. Non sono certo dalla parte di chi sfrutta pelosi, piumati e squamati, ma da molto tempo certi animali sono di compagnia all’uomo. Ci sono mascotte un po’ ovunque, dalle squadre sportive ai battaglioni militari. Un caprone ha perfino i gradi di maggiore nel prestigiosissimo Royal Regiment of Wales e la marina Usa ha una pagina dedicata ai gatti di bordo. Dov’è il problema? Che, forse, non deve tanto infastidire la presenza dell’animale, quanto l’assenza di un controllo (severo) che questo non sia maltrattato o sottoposto a stress fisico e/o psichico.

Animali da spettacolo ne esistono parecchi, la tv e la politica italiana ci hanno abituati a fior di esemplari, non sempre appartenenti al regno animale. In una trasmissione non fanno quasi più notizia. Perché non attiviamo un organismo di controllo serio o, piuttosto che sbattere l’animale sotto i riflettori, non proviamo invece ad attingere alla forza di un disegno o di una caricatura? Ne esistono di eccellenti che hanno anche fatto la fortuna dei marchi che le hanno sposate. Se hanno funzionato con le pubblicità che ci rifilano di tutto, tranquilli che ci sono ottime speranze anche per lo spettacolo.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Sono tornati i prati dopo il sangue della guerra

 

In occasione della ricorrenza della prima guerra mondiale, ho deciso di non perdermi i due film italiani della stagione dedicati all’argomento. Confesso di essere andato alle anteprime con l’occhio un po’ critico del documentarista e con l’aggravante del forte interesse per l’argomento. Torneranno i prati di Ermanno Olmi e Fango e gloria di Leonardo Tiberi mi hanno a loro modo coinvolto. Il forte denominatore comune delle atmosfere rese non si stempera nella forza evocativa delle due pellicole.

Olmi trasporta con la bella fotografia nei silenzi della montagna. C’è molto Deserto dei tartari di Buzzati nella storia di una notte interamente ambientata in una trincea sospesa nel paesaggio argentato dalla luna. Quando la quiete è interrotta da un pesantissimo bombardamento, la pace della montagna sprofonda irrimediabilmente nel dosso dove il sogno di un soldato mostra un larice diventare d’oro e poi bruciare con le vite di molti militi. Manca una storia, ma forse Olmi voleva esattamente questo per intrecciare il non-senso di una guerra che porta in contatto gli uomini senza venire a capo di nulla. Qualche lacuna sui dialoghi è compensata da particolari struggenti come il soldato che bacia il tozzo di pane, l’uomo che canta sulla cima del dosso e la marcia del plotone in ritirata nella neve. Massimo rispetto per il maestro che ha seguito tutte le riprese sfidando il gelo sul set e che chiude con la citazione del padre.

Tiberi la storia invece ce l’ha e la racconta in modo originale. Narrazione in prima persona, intercalarsi frequente di immagini d’epoca colorate allo scopo di avvicinare il pubblico, passaggi intensi dalla zona di fronte a quella delle retrovie dove l’attesa di una notizia dei propri cari era forse ancora più pesante che l’attacco imminente dalla trincea.

Se per il maestro Olmi era abbastanza scontato il traguardo della produzione grazie al suo nome, a Tiberi non si prospettava vita facile. Anche grazie al Banco Desio, è comunque riuscito a creare qualcosa che si avvicina all’esperimento (riuscito) del documentario rafforzato da una linea di fiction. O, se preferite, il viceversa di una storia arricchita dal valore documentario che racconta anche la storia del Milite ignoto. A ognuno la scelta. Ogni occasione è buona per ricordare e il cinema riesce qui a svolgere il suo ottimo servizio, convinto più che mai che andrebbe portato sempre più spesso anche nelle scuole per raccontare con poche immagini quel che tante parole spesso non rendono. Nell’era virtuale, la memoria passa ancora da qui.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Villa romana festeggiata col cemento

Una scoperta archeologica porte cementificazione e abuso alle porte di Roma.

Se non conoscete Marco Valerio Messala Corvino non preoccupatevi, non lo avevo mai sentito nominare neppure io finché non ho letto le dichiarazioni dell’archeologa Aurelia Lupi, quella Aurelia Lupi il cui lavoro fece notizia in giro per il mondo allorché, in un grande spazio verde della campagna tra Roma e Ciampino, vennero portate alla luce sette meravigliose statue di Età augustea. La sua dichiarazione fu perentoria.

Una di quelle scoperte che capita una sola volta nella vita di un archeologo

Ecco, se ora vi passasse per la testa un ragionamento tipo “Fico! Posso aspettarmi la valorizzazione del luogo dove un console romano si circondò di bellezza e magari ospitò i poeti della sua epoca” sappiate che siamo fuori strada. Per quegli illusi – scrivente compreso – che immaginavano tramontato definitivamente il periodo in cui urbanisti compiacenti assecondavano la briosa attività dei signori del mattone, non c’è speranza. Comincio davvero a pensare che tutte le ricchezze che abbiamo non ce le meritiamo. È evidente che in questo momento non possiamo permetterci cantieri di restauro ovunque e a qualcosa dovremo rinunciare, ma da lì a dare il semaforo verde all’edilizia d’assalto ne passa.

Soluzioni possibili? Vincolare l’area. Pare fosse stato fatto, ma poi sono state allentate le restrizioni. Oppure cercare il mecenate oltre confine e proporgli un’operazione di sponsorizzazione. Volete che nessun russo, cinese o indiano accetti di farsi bello nel dire a casa o nel suo club di aver adottato un’opera inestimabile nella bellissima Italia? Sì, perché sia chiaro che, nonostante tutti i nostri sforzi nel ‘bruciarci’ luoghi o occasioni, continuiamo ad essere invidiati. Parlandone, qualcuno mi ha obiettato che una operazione del genere sarebbe volgare e non controllabile. Sono abbastanza convinto che la vera volgarità stia nella bruttezza delle palazzine. Mentre per la controllabilità penso a quanti archeologi, magari neolaureati, farebbero a gomitate per assumersi l’onere e il relativo stipendio, con la certezza che nessun oligarca si farebbe problemi a vedersi aumentata la spesa perché lo Stato italiano, assieme al bene, gli affida anche un vigilante appassionato.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

L’Altro Martedì – 28 ottobre 2014

L'Altro Martedì
L'Altro Martedì
L'Altro Martedì - 28 ottobre 2014
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L’Altro Martedì 28 ottobre dalle ore 21.00 alle ore 22.00

Eventi: Gender Bender 12esima edizione: buon costume. Intervista a Daniele Del Pozzo, direttore artistico del festival più esplosivo ed interessante del panorama italiano, dedicato alle rappresentazioni del corpo e delle identità di genere nella cultura e nelle arti contemporanee.

Culture e società: Stefano Paolo Giussani, giornalista e scrittore, presenta “Departure Gay(t)- Canarie” la rubrica che ci farà immergere in luoghi tra Italia ed Europa dove ospitalità, gusti, cultura e paesaggio possono diventare persino eterofriendly.

Musica: Oltre al mocio c’è di più Rock band femminili in Italia a cura del Collettivo RRRagazze in RRRivolta