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La generazione Oceano per il prossimo decennio

Quando sentiamo parlare di crisi climatica e delle minacce del climate change, non sempre abbiamo a fuoco il problema nella sua totalità. La questione non è solo legata ai dati di innalzamento della temperatura globale. La definizione è molto più complicata, condizionata da una serie di variabili, di cui la più imprevedibile è quella generata dalla specie che vedete riflessa ogni mattina nello specchio. La nostra.

Aiutiamoci con una definizione. “Il clima è lo stato dell’atmosfera e dell’oceano che è in equilibrio con la forzatura solare esterna, cioè le condizioni che si ripetono frequentemente e che in qualche modo caratterizzano lo stato fondamentale del sistema atmosfera-oceano”. Le parole di Antonio Navarra, direttore del Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici, rendono evidenti quanto il problema sia da concentrare tanto sulla componente aerea quanto su quella acquea del nostro pianeta.

Se l’aria è spesso al centro delle nostre attenzioni, non fosse altro perché è il nostro principale alimento, non altrettanta attenzione è dedicata agli oceani. È l’economia a dirci che 3 miliardi di esseri umani dipendono la loro esistenza dal continente liquido, ma è la climatologia a spiegarci che perfino chi vive nell’ultimo rifugio di montagna dipende dal mare. E se, fino a non molto tempo fa, esso era considerato una risorsa inesauribile e inattaccabile, oggi abbiamo dati a sufficienza per definirlo seriamente minacciato.

A ricordarcelo e a sensibilizzarci, le Nazioni Unite hanno dichiarato il 2021 – 2030 “Decennio delle Scienze del Mare per lo Sviluppo Sostenibile”. Questa iniziativa punta a mobilitare la comunità scientifica, i governi, il settore privato e la società civile intorno a un programma comune di ricerca e di innovazione tecnologica che focalizza sette obiettivi da conseguire per l’oceano. Dobbiamo fare di tutto per garantirlo:

  • pulito, con le fonti di inquinamento chiaramente identificate e ridotte fino ad essere rimosse,
  • sano, con ecosistemi marini mappati, protetti, reintegrati e saggiamente gestiti,
  • sostenibile, così da garantire la fornitura di cibo e di risorse che generino occupazione nel rispetto degli equilibri,
  • predicibile, dando alla società la capacità di comprendere le condizioni oceaniche attuali e ipotizzare le future,
  • sicuro, in cui le persone abbiano coscienza dei pericoli che comunque fanno parte del sistema marino,
  • accessibile, per la divulgazione di dati, informazioni e tecnologie,
  • fonte di ispirazione e coinvolgente, perché la società possa capire e condividere il mare in relazione al benessere umano e animale.

Ci sono molti testimoni schierati, ma l’agente di cambiamento più efficace rimaniamo noi, con la parsimonia dei nostri consumi quotidiani, con la leggerezza delle confezioni che acquistiamo, con il voto che esprimiamo, con le risorse che ricicliamo e riutilizziamo, con la sottoscrizione e la condivisione del Manifesto.

E naturalmente con gli esempi che portiamo ai più piccoli. Mi ha colpito la storia di Ida e la Balena volante, graphic novel dove una bambina che vive in un bosco riceve la visita di un cetaceo. Inizialmente impaurita dalle sue dimensioni – chi di noi non si è mai trovato almeno un attimo smarrito di fronte alla vastità del mare? – accetta l’invito di cavalcarla per scoprire il mondo e la sua diversità. Una successione di quadri dipinti con raffinatezza per un racconto filosofico nato da una coppia di illustratori svizzeri che vivono insieme in mezzo alla natura, proprio come la piccola protagonista. Impugnando colori e pennello, esprimono l’idea che tutti avremmo bisogno di una balena per ampliare gli orizzonti arrivando a quello assoluto del blu. Chissà che il decennio degli oceani non sia davvero la nostra occasione per lasciare il bosco a cui siamo aggrappati e guardare in modo diverso il mondo che lasceremo in eredità a Ida.

5 disastri per la Giornata dell’Ambiente

5 giugno, Giornata Mondiale dell’Ambiente. Potremmo elencare una serie di minacce che ogni giorno sono rivolte alla parte naturale della nostra Terra. Raggruppando 5 macrocategorie, distingueremmo:

Cambiamento climatico: ha già creato effetti evidenti sull’ambiente. I ghiacciai si sono ritirati, fiumi e laghi si scongelano prima, piante e e alberi fioriscono in anticipo. L’effetto è un lento inesorabile innalzamento delle temperature che porterà a sconvolgimenti come l’inaridimento di alcune aree mentre altre conosceranno disastrosi effetti per le precipitazioni improvvise.

Deforestazione: anche se il tasso di deforestazione è diminuito (e in Italia la tendenza è a un aumento delle aree verdi) continuiamo a giocarci 130.000 km2 l’anno di fonti di ossigeno. È come se ogni 12 mesi perdessimo una distesa d’alberi grande come l’Italia da Napoli in giù.

Inquinamento: tira una cattiva aria, in Italia sono 30.000 i decessi annui imputabili alle pessime condizioni della miscela che respiriamo. Per rendervi conto cosa significa respirare bene anche in città, se vivete a Roma, Milano o Padova, vi consiglio di entrare nella AirShip, un bosco itinerante che Austria per l’Italia ha installato per qualche giorno nelle nostre città, sulla scia del memorabile padiglione di Expo 2015.

Perdita di biodiversità: negli ultimi 40 anni abbiamo perso il 52% della biodiversità, il dato sale al 58% se consideriamo i soli vertebrati.

Crescita esplosiva della popolazione: di questo passo, mantenendo il ritmo di vita attuale, entro il 2100 ci serviranno tre pianeti per mantenerci, chi ce li da?

Leggendo la lista, che è limitata a macroproblemi a loro volta sfaccettati in moltissime ulteriori criticità, non pensiamo a 5 elementi completamente indipendenti tra loro, ma a 5 concause che da qui al 2050 potrebbero cambiare l’immagine della Terra in modo tale da non farcela riconoscere se solo avessimo il potere di materializzarci a 32 anni da oggi.

Nello stesso periodo di tempo, ma al passato, sono cambiati – solo per fare qualche esempio – il modo di muoverci (si viaggia tra Milano e Roma in meno di tre ore e si vola in tutta Europa per il weekend), di comunicare (ognuno di noi ha in tasca un processore potente come i più potenti di allora), di mangiare (in Italia è ormai normale trovare vini sudafricani e frutti sudamericani), di acquistare (compriamo con un clic beni di cui conosciamo poco o nulla oltre quello che ci viene detto attraverso lo stesso strumento da cui stiamo acquistando).

Cosa siamo disposti a fare, dunque, per aprire gli occhi e non rimanere sconvolti dalla visione del 2050? Buona Giornata dell’Ambiente a tutti noi, Terra compresa. Intanto ecco 6 minuti di Pianeta come vorrei ritrovare.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Obama – Trump, sfida all’ultimo pianeta

Obama e Trump si passeranno il testimone alla Casa Bianca il 20 gennaio. Nessuno sa bene cosa potrebbe accadere alla Terra da quel giorno, visto che la direzione politica dello stato più potente del pianeta passerà da chi ha dimostrato di esserci impegnato (anche) per l’ambiente a chi ha pubblicamente dichiarato che “il concetto di riscaldamento globale è stato montato dai cinesi per rendere non competitive le industrie statunitensi”. Sì, Trump dubita pubblicamente delle prove scientifiche del global warming.

In attesa dei prossimi 4 anni di mandato e pronto a ricredermi se le dichiarazioni twittate dal neoeletto saranno smentite, voglio ricordare Obama per qualche suo gesto coerente con le dichiarazioni in campagna elettorale in tema di rispetto per l’ecologia.

  1. Ha sottoscritto il trattato di Parigi che prevede un drastico taglio alle emissioni di anidride carbonica.
  2. Con il suo omologo canadese Trodeau è riuscito a imporre limiti restrittivi alla ricerca e allo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas sulle coste atlantiche e artiche.
  3. Ha dichiarato riserva marina un’area del Pacifico la cui superficie è quasi tre volte quella della penisola italiana.
  4. Ha bandito i microgranuli, particelle di plastica indistruttibili presenti in molti dentifrici e creme cosmetiche. Finiti in mare, questi componenti sono alla fine ingoiati da pesci e uccelli.
  5. Ha posto il veto sul progetto di un oleodotto di circa 2000 chilometri tra i porti del Texas e l’Alberta, in Canada.
  6. Ha esteso la protezione della costa californiana includendo circa 20000 micro-isole e scogliere.
  7. Ha ratificato accordi con 13 case automobilistiche per ridurre le emissioni inquinanti e migliorare le prestazioni ecologiche dei veicoli.
  8. Ha spinto in direzione delle centrali energetiche pulite.
  9. Ha esteso la protezione dell’ambiente in nove stati iscrivendo i territori come wilderness, cioè inviolabili da strade e costruzioni di qualsiasi genere.
  10. Ha usato per 23 volte il potere dell’Antiquities Act del 1906 per proclamare monumenti nazionali. Nessun presidente prima di lui era arrivato a tutelare un numero così elevato di tesori naturali e storici.
  11. In piena recessione ha puntato sulle fonti rinnovabili con 90 miliardi di dollari di investimenti per impianti e posti di lavoro.
  12. Ha stabilito una strategia nazionale per proteggere le api e gli insetti impollinatori.
  13. Si è lasciato coinvolgere in molti programmi di divulgazione a favore della protezione dell’ambiente. Rimane memorabile la sua partecipazione alla trasmissione di Bear Grylls. Durante l’episodio Obama si è lasciato guidare in Alaska per commentare il considerevole ritiro dei ghiacciai. Il sentiero e le situazioni erano evidentemente preparate in anticipo, ma l’impegno è stato apprezzabile.
  14. Una nota che non c’entra con l’ambiente naturale ma con la naturalità delle cose: ha tinto di rainbow la Casa bianca e il mondo prendendo più volte posizioni a favore della comunità LGBT.

Obama poteva fare di più? Certo! Gli Usa hanno dormito sonni pesanti nelle ratifiche dei trattati internazionali, probabilmente per gli enormi interessi in gioco. Per l’ambiente non si fa mai abbastanza, non ci si stanca di ripeterlo. Intanto, però, qualcosa Obama ha fatto.

Ora ci aspettano quattro anni di Trump. Speriamo che qualcuno gli ricordi che la  Terra non è uno yacht per miliardari che se affonda offre una scialuppa ovattata per salvarsi su una spiaggia dorata. Anche se poi fosse, chi sale sulla scialuppa? L’augurio d’obbligo è “Buon lavoro Mr. Trump, ci risentiamo nel 2020 sperando di scrivere altrettanto bene di lei”.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Sharing economy: condividi i vantaggi, risparmi tu e l’ambiente

Si parla sempre di più di sharing economy. Il 70% degli Italiani, rivela una statistica dell’istituto di ricerca TNS, ne conosce il significato e un terzo di questi ne ha utilizzato almeno una volta i servizi.

La conferenza sul clima di Parigi è stato un ottimo aiuto per ricordare che il movimento del consumo collaborativo aiuta a sfruttare meglio le risorse non utilizzate e può manifestare una trasformazione concreta su due livelli facilmente riscontrabili. Innanzitutto influisce sul borsellino dei viaggiatori facendoli risparmiare. In secondo luogo, cambia le attitudini mentali nel non possedere in esclusiva oggetti che si usano solo parzialmente. Ci sono così molti elementi che aiutano a limitare il cambiamento climatico incoraggiando le pratiche di sostenibilità nei vari ambiti, siano essi case, frigoriferi o veicoli, giusto per citarne alcuni.

Secondo uno studio di Cleantech Group, i viaggiatori che si affidano ad esempio alla condivisione di una casa emettono il 66% in meno di CO2 rispetto a chi sceglie alberghi che devono impegnare molte energie per raggiungere livelli di efficienza tali da guadagnare le stelle di classificazione. Analogo riflesso si ha nell’ambito alimentare: condividere una cucina o comunque il contenuto di un frigorifero permette di risparmiare sull’acquisto delle quantità e ottimizzare i consumi limitando gli sprechi.

È forse nei trasporti che si manifesta, però, il più grande e sorprendente vantaggio ambientale della sharing economy. Una ricerca dell’Università di Berkeley ha stabilito che per ogni veicolo utilizzato in tutta la sua capacità di trasporto grazie alla condivisione, se ne potrebbero togliere dieci dal traffico congestionato delle città.

Sommando tutte le attività degli operatori presenti sul nostro mercato (Airbnb, BlaBlacar, Gnammo, HomeAway, VizEat, Smartika, iCarry, CoContest, Guide Me Right, GoGoBus, Timerepublik, Tabbid, Produzioni Dal Basso, LastMinuteSottoCasa, L’Alveare che dice Sì, solo per citarne alcuni) la sharing economy può anche diventare un motore per la micro imprenditoria, stimolando a livello locale la crescita di nuove imprese e attenuando gli effetti della crisi di altri settori.

Non buchiamo il referendum delle trivelle

Tra malinformazione e silenzi, domenica 17 ci sarà chiesto di dire la nostra al referendum sulle trivelle, ribattezzato No Triv.

Estremizzo le due posizioni che vi sarà capitato di sentire. La prima: se continuiamo a bucare, ci si sgonfia il pianeta sotto i piedi e sarà un gran casino con un disastro via l’altro tra maree nere, terremoti e torri in metallo all’orizzonte così brutte che neanche i gabbiani vorranno farci sopra la cacca. La seconda: se non buchiamo dovremo andare a piedi, avremo orde di disoccupati per le strade, diventeremo una specie di terzo mondo fuori dal terzo mondo.
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Chi se ne frega degli incendi dall’altra parte del mondo?

Incendi di vaste proporzioni stanno incenerendo le foreste primordiali della Tasmania, il fuoco si sta mangiando interi boschi primordiali. Guardo il mappamondo, scopro che è proprio dall’altra parte del globo, tiro un sospiro di sollievo. Chissene? Poi, non ci hanno sempre detto che il fuoco non doloso che si mangia un bosco, fa parte della natura? Le fiamme svolgono un ruolo chiave di rinnovamento in un ecosistema e tiro pure un sospiro di sollievo.

Perché allora molti media di tutto il mondo se ne stanno occupando? Continua la lettura di Chi se ne frega degli incendi dall’altra parte del mondo?

Un orso al fuorisalone, puntata 2015

A Milano è partita la kermesse del Salone del Mobile con l’annesso circo dei Fuorisalone che animeranno fino a domenica la città. In molti vedono la galassia di eventi come la prova generale di Expo. Vedremo. Per adesso mi accontento della mia (solita) passeggiata alla scoperta dei molti talenti impegnati nella valorizzazione di progetti sostenibili.

Suggerisco di partire dalla zona più fresca per l’età dei creativi impegnati, quella di via Ventura a Lambrate. Luci a led che diffondono soavi trasparenze in lampade a nuvole o a petali, cascate d’acqua in vecchi tubi di aerazione, tavoli e mobili da cassette e Bici in legno Cascata d'acqua a led Cassette portatutto e mensole da tronco Completo in cartone ondulato Coprivaso in materiale di risiclo Fiori da tessuti riciclati Fogli di betulla diventano lampadari Giunco per borse di design Legno certificato per arredi contemporanei e pareti multiuso Luce diffusa grazie ai fiori di led Manici che diventano lampade Mobili gonfiabili, leggerissimi e trasportabili Monoblocco lavabo in pino Nuvole di luce Pala eolica o scultura di energia rinnovabile? Plastica avvolgibile per armadi versatili Portavaso minimalista Tavolo e accessori in laminati di legni Un filo di ferro e un led creano un voltopallets, fiori e vasi da tessuti di scarto, tubi che diventano sculture, bici in legno, case e uffici pieghevoli ricavati in serre, mobili in lamiera che una volta era automobili o lavatrici. Ci sono perfino un tubo che rivela la naturale luminescenza del mare e una pala eolica che è molto vicino ad essere una scultura. Un monumento alla sostenibilità? Forse. Siamo sulla buona strada, ci servono esempi, non monumenti.

Spostandosi verso il centro, la Fabbrica del Vapore sarà la tappa obbligata per gli appassionati delle architetture vegetali. Giunco, bambù, fibre naturali per l’unico materiale – il legno – che è perfettamente rigenerabile e nel rigenerarsi produce quella cosa chiamata ossigeno. Avete presente, no?

E siccome per il futuro sarà sempre più importante riciclare, tra gli appuntamenti immancabili bisogna segnarsi Io riciclo, Tu ricicli. Occasione straordinaria per incontrare designer emergenti che fanno del green il proprio credo. Dalla nascita dell’evento, all’NH Hotel di via Tortona, sono circa 100 i progetti selezionati negli anni e diventati successi. Il vaso fatto col compost, i manici del rastrello e della scopa che diventano lampade, il cartone ondulato che si modella a sedia di design. È tutto lì da vedere e, soprattutto, provare.

Nel chiostro dell’Università Statale, Energy for Creativity propone una selezione di creativi che combinano materiali poveri con le avanguardie. Curiosa la parte dedicata al Brasile, che dimostra come arredare usando forme e colori della natura incontaminata con la libreria a forma di giaguaro o la lampada che richiama al serpente corallo.

In tema di ambiente, anche i confini della Fiera hanno qualcosa da raccontare. Qualcuno ha pensato ai luoghi del cuore d’Italia sviluppando cinque ambienti tra Milano, Roma, Venezia, Val d’Orcia e Lecce. Nelle ambientazioni, visualizzabili anche nell’app scaricabile nel Padiglione 14, il sogno del Bel Paese si celebra con gli oggetti del design nazionale.

Nella sezione Satellite, i giovani talenti si preparano a Expo con progetti tutti “tecnologia e sostenibilità”. Si trovano vasi intelligenti che modulano acqua e aria e composizioni in betulla. In tema di sostenibilità rimango perplesso di fronte alla libreria in cemento e alle sedie in vetroresina, materiali che sostenibili non sono. Il design comanda qui, è vero, ma il pubblico non è tanto allocco.

Nei padiglioni 22 e 24 della sezione Workplace, ci si cala invece nella passeggiata di un ufficio verde progettato da De Lucchi. Bello, anzi bellissimo. Le passerelle volano letteralmente su isole verdi dove tra le scrivanie ci starebbero bene scoiattoli e passerotti. Se davvero gli uffici saranno così, chi ci torna più a casa?

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

 

Fà la cosa giusta, vieni in fiera e impara qualcosa

Oggi a Milano apre una fiera dedicata a chi crede si possa concretamente fare qualcosa per un mondo più sostenibile.  Fà la cosa giusta!  Non è uno di quegli show dove gli stand gareggiano a luccicare per attrarre visitatori dell’effimero. Non andateci se cercate il patinato e il perfetto.

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Però non mancatela se vi va di vedere il mondo del quotidiano con occhi differenti. La manifestazione si articola in 13 sezioni: Mangia come parli, Vegan, Pianeta dei piccoli, Mobilità sostenibile, Turismo consapevole e percorsi, Critical fashion, Abitare green, Editoria e prodotti culturali, Pace e partecipazione, Commercio equo e solidale, Cosmesi naturale e biologica, Economia carceraria, Servizi per la sostenibilità.

Non è il solito specchietto per allodole della Milano liquida. Qui c’è chi nei pallets usati ci vede divani, letti e fioriere. Si incontrano ragazzi che con gli avanzi di cartelloni pubblicitari o tele di camion ci fanno borse. <http://www.garbagelab.it/index.php/it/> Immaginate pure cinture fatte con pneumatici usati di bicicletta, biscotti preparati dal forno di un carcere, gioielli e bigiotteria confezionati in modo da non danneggiare ambiente e persone. La sezione che richiama più di tutte è quella della critical fashion: moda etica, tessuti (davvero) artigianali, cotone biologico, scarpe vegane. C’è perfino un’agenzia che organizza ecomatrimoni, almeno così sposi e invitati saranno certi che la loro cerimonia non sarà una mazzata per l’ambiente. Poi ci sono i corsi, secondo un fitto programma di seminari per scoprire che le cose non nascono sugli scaffali dei supermercati. L’autoproduzione è una pratica sempre più attuale e diffusa. Perché non imparare a produrre in casa cosmetici, abbigliamento, detersivi e oggetti di design?

Ho trovato anche libri interessanti collegati agli argomenti. Da appassionato del legno, mi ha incantato Piccoli falegnami – lo ammetto, l’ho preso per me ma giuro che lo metterò in pratica per i miei nipotini – e mi sembra molto interessante Più bici, più piaci, un viaggio semiserio alla scoperta della due ruote perfetta attraverso 25 identikit in uno dei quali potreste riconoscervi e, chissà, decidere di non mollare mai più i pedali. Insomma, non scambiatelo come un evento per radical chic e hipster, perché qui c’è gente di tutte le età e tutte le provenienze, e in un certo senso è anche un viaggio nelle culture. Gastronomiche comprese, visto che c’è pure una sezione dedicata al buon mangiare e buon bere.

A eventi di questo genere, secondo me, bisogna riconoscere tre meriti.
Innanzitutto stimolano la creatività. Non c’è come un periodi di crisi – economica e di idee – per trovare spunti volti al risparmio e a quella fantastica soddisfazione del “me lo sono fatto da solo”.
Poi si constata che c’è sempre una seconda possibilità. Qui c’è gente che ha cambiato lavoro lasciando la banca per mettersi a guadagnare dalle proprie passioni e dalla propria manualità, ma c’è anche gente che dal carcere cerca di farsi una seconda vita imparando un mestiere. Infine scatta un occhio strano che libera il pensiero laterale, perché in uno scarto industriale posso vedere un rivestimento, un decoro o un oggetto di funzionalità diversa da quella originaria. Quel che non è più un rifiuto per alimentare una discarica qui si valorizza e diventa bello. E’ anche ammettere, dopotutto, che Cenerentola non è solo una fiaba.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Arte col cartone Atelier di abiti ricavati con tinture vegetali da alberi e fiori Cosmetici di bambù e riso da Torino, Giorgio gestisce con la mamma un piccolo laboratorio in funzione dal 1978 Ecoidee per giocare Emanuele e Massimo, due fratelli, uno informatico e l'altro ecologista fanno arte e design col cartone Erano dischi da buttare, ora sono orologi Fabrizio 1, prima si è inventato una libreria modulabile coi lacci Fasce portabimbo coloratissime e in materiale naturale Gattini e gufetti solari per la luce soffusa, ma con la luce solare si può anche ricaricare il telefonino Il collettivo studentesco Black Rabbit fabbrica borse con le camere d'aria L'oro etico non sfrutta i giacimenti minerari disumani Le tre sorelle Paglia recuperano scarti da tessuti di lusso e ne fanno accessori Libri fatti a mano e composti da parole prese da gradni opere o notizie curiose Memorabilia Prima di diventare bracciali erano forchette, in argento Scultori di trottole in legno Sì, ci sono anche angoli per il gioco Spazio ai corsi per imparare a fare e comprare bene Teddy era un geometra ma gli è sempre piaciuto fare bigiotteria per amici, ora la fa per tutti, perfino con vecchie serrature Teloni pubblicitari risparmiati alla discarica grazie ai ragazzi di Garbagelab

La fiaba di Ferrino nella grotta della Strega Bavosa

Questa fiaba è diffondibile liberamente con qualsiasi mezzo citando la fonte:  www.stefanopaologiussani.it

 

E’ divisa in sette capitoli, come le sette sere di festa che ci separano dalla notte di San Silvestro.

 

©2013  Francesco, Matteo e Stefano Giussani – AgenziaGeografica

 

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Ormai era una settimana che nevicava fitto fitto. Così fitto che gli alberi non ce la facevano più a reggere il peso e i rami facevano a gara per appoggiarsi a terra e non rischiare di rompersi. Ne era scesa talmente tanta che tutto era imbiancato e il soffice della neve si era mangiato perfino i rumori creando un mondo sottovoce.

Per questo, il TOC TOC sulla porta risuonò forte in tutta la casa. Nicolò chiuse di fretta il libro per vedere chi aveva sfidato la tormenta venendo a bussare alla loro porta, l’ultima prima del bosco. Si fermò sui primi gradini della scala, da dove vedeva Mattia che aveva raggiunto l’uscio prima di lui. Mattia era più grande di tre anni e ovviamente era stato più veloce. La porta aperta a metà lasciava intravedere un uomo con dietro la cascata di fiocchi che non smettevano di scendere.

Quando l’uomo domandò qualcosa e Mattia si fece da parte guardando verso la scala, anche Nicolò si girò e, non vedendo più nessuno dietro di sé, capì che il visitatore era venuto a chiedere proprio di lui.

Era Zanzone, il sindaco del paese, e teneva in mano un pacchetto. Raccontò che era successa una cosa molto strana. Dall’inizio della nevicata nessuno aveva più notizie di Ugo e Teo, i due giocattolai che abitavano nella casa a forma di torre vicino alla chiesa. Mandavano giocattoli in tutto il mondo vendendoli ai più bei negozi delle grandi città. Tutti facevano a gara per comprare i loro lavori e i due erano ben contenti di spedirli ovunque guadagnando. Se normalmente i loro giocattoli erano ben pagati, avevano però preso l’abitudine di regalarli ai bambini della loro valle. Nessun bambino viveva con loro, ma non c’era bambino in paese che non avesse ricevuto in regalo qualcosa fatto con le loro mani. Treni, bambole, carri, mulini. Non c’era oggetto che i due non sapessero riprodurre e ogni bambino e bambina delle sette frazioni sotto il monte Piangallina sapeva che, al compiere dei 9 anni, avrebbe ricevuto il suo regalo. Erano oggetti speciali, bellissimi, anche se erano fatti con gli scarti che la gente abbandonava o buttava.

«Tutto può avere una seconda vita» diceva sempre Ugo.

«Sta solo nel vederla con altri occhi» aggiungeva Teo.

Così giravano per cantine, solai e fienili a raccogliere oggetti abbandonati da trasformare. Dopo che passavano loro, quasi nulla andava buttato. La cosa straordinaria era che il giocattolo che veniva regalato diventava poi un’anticipazione del lavoro che ogni piccolo avrebbe fatto da grande. Chi aveva ricevuto in passato un forno fatto con dei vecchi scaldaletto era poi diventata la più brava pasticciera della capitale. Il bambino a cui avevano regalato un ponte costruito con le molle di un letto era ora un bravissimo ingegnere. La nave ricavata da un antico ferro da stiro era nella cabina di quello che nel frattempo era stato nominato capitano della più grande nave della flotta nazionale.

Ora erano spariti. La loro casa vuota. Il magazzino dei materiali deserto. La stanza degli arnesi senza più niente dentro. Niente, se non un burattino sbilenco fatto con tubi e bulloni e un biglietto con una scritta in una calligrafia strana che diceva “lui ci servirà perchè perfino un mostro sa crear” con a fianco un nome.

Nicolò!

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A Nicolò mancava ancora un giorno per i suoi nove anni e il regalo che gli spettava. Perché se ne erano andati proprio ora? Zanzone non aveva risposta, ma credeva che incontrare Nicolò potesse aiutarlo in qualche modo. L’uomo attraversò il locale lasciando una scia di neve sul pavimento in legno. A vederlo col suo cappotto lungo e la corporatura massiccia, si aveva la sensazione  che si fosse messo a camminare uno dei covoni in paglia che in estate si vedevano in mezzo ai campi.

Tolti gli scarponi, davanti alla stufa accesa i piedi di Zanzone stavano scaldandosi mentre dalla cucina arrivava il profumo dei biscotti che la mamma aveva appena sfornato. Nella calza destra c’era un grosso buco che lasciava uscire il grasso dito e faceva ridere Mattia mentre Zanzone raccontava i dettagli. Mentre parlavano, il burattino in metallo era appoggiato a fianco alla stufa e la luce del fuoco faceva vibrare la sua ombra dando l’impressione che si muovesse per ascoltare quel che veniva detto.

“Quello non può essere il mio giocattolo” pensava Nicolò, perché non solo l’ometto era brutto, ma non rappresentava nulla, e poi nessun regalo era mai arrivato prima del nono compleanno.

I pensieri accompagnarono Nicolò fino al suo letto. Aveva smesso di nevicare e la luna, che era sorta da dietro la montagna, allungava sul pavimento il quadrato della finestra fino all’angolo dove aveva appoggiato quel tubo arrugginito coi bulloni al posto delle gambe e delle braccia e due dadi come occhi.

“Non hai neanche un nome, pezzo di ferraglia”, pensava il bambino. «Sei solo un piccolo pezzo di metallo. Ti chiamerò Ferrino» sussurrò il bambino appena prima di addormentarsi.

La notte trascorreva nel silenzio più assoluto della camera dei due fratelli quando un ticchettio leggero si diffuse per la casa. Era un rumore come quello della pendola giù in sala, solo più irregolare del solito tic tac e fatto da un tic-shhh-tic-shhh, come se tra un ticchettio e l’altro ci fosse qualcosa che strisciava. Al bambino sembrava di aver sognato tutto. Solo a un certo punto della notte, svegliandosi per andare a fare pipì, si rese conto che Ferrino era sparito.

Mattia dormiva al piano sotto del letto a castello e non aveva sentito nulla. Quando Nicolò iniziò a strattonarlo, gli disse sbadigliando di non disturbarlo, che ci avrebbero pensato domani mattina.

Bello o brutto, Nicolò era convinto che il burattino fosse suo e non era disposto a perderlo così. Decise di scendere da basso. Notò subito che l’uscio era chiuso ma lo sportello del gatto era solo accostato. Affacciandosi sulla stanza della stufa vide Smer sul davanzale muovere la grossa coda e alzare la testa facendo brillare gli occhi nel buio. Oltre il vetro, il vialetto era ricoperto tutto di bianco, ma si distingueva una striscia di piccole impronte che puntavano dritte al Bosco Alto.

Nicolò odiava quel bosco. Ci si era perso da piccolo e avevano dovuto venire a cercarlo gli uomini del paese, che lo trovarono solo al mattino. “Se credi che il bosco dorma, è solo perché non ci sei mai stato dentro di notte” pensava da allora ricordando i tronchi che si lamentavano tra gli scricchioli e un sacco di altre cose che strisciavano, grattavano, mugolavano, ansimavano attorno a lui. Se quello sgorbio di burattino se ne era andato nel bosco non gli interessava, pensò ritornando sotto le coperte e apprezzando che i suoi piedi sentissero di nuovo il tiepido del piumone.

Riaprì gli occhi convinto di aver dormito tutta notte, ma l’ombra della finestra era cambiata solo di poco e al posto di Ferrino c’era Smer. Nicolò lo stava fissando con la testa appoggiata al cuscino quando con un gesto della testa puntò il naso verso la finestra, in direzione del Bosco Alto. Si affacciò ma ancora non vide nulla, se non la sagoma degli alberi che sembravano un esercito di soldati schierati per proteggere l’ultima parte della valle, quella oltre la quale c’erano solo pascoli e rocce senza nessun rifugio. Gatto e bambino stettero a fissarsi per un po’, zitti.

«Va bene, andiamo a cercarlo ma solo fino alla salita» sussurrò a Smer indossando sopra il pigiama tutte le cose pesanti che gli capitò di prendere dal cassetto.

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Gli piaceva il profumo dell’aria dopo la nevicata. Il mondo sembrava più pulito. La luna colorava d’argento tutto e non c’era quasi bisogno della lampada per seguire le tracce di Ferrino, almeno fino al punto in cui erano ingoiate dal buio del bosco dove iniziava la salita. Smer lo precedeva affondando la sua larga zampa pelosa nel manto bianco.

Arrivati ai primi alberi, non fece in tempo a dire «io lì non entro!» che con un balzo il gatto era già scomparso oltre i cartelli che indicavano la salita del monte Piangallina e la via per il passo di Ventifreddi.

«Smer, non fare stupidaggini, torna». «Smer, ti prego». «Smer non così», disse per un po’ di volte.

«Smer ho paura», aggiunse con la voce tremolante. Il bosco la assorbì nel silenzio rotto solo dal tremore dei cristalli di neve sui rami. Voltandosi verso la casa, però, non gli sembrò tanto lontana. Il lampione giallo di fronte all’uscio era un rassicurante ombrello di luce in fondo al sentiero. Da quando si era perso nel bosco, era ormai trascorso un po’ di tempo e ora era cresciuto. Poteva dunque provare ad entrare, ma solo il tempo per trovare Smer e tornare veloce a casa, prima che si accorgessero della sua assenza. Bastò qualche passo per immergersi nel nero più assoluto squarciato solo dalla sua lampada. La foresta era silenziosa come non aveva mai notato prima. Sembrava quasi un altro posto. C’era anche molta meno neve che era invece sostituita dagli aghi di pino che rendevano morbido il camminare. Continuò fino a una radura dove fu sfiorato da un fruscio, FSSSHHHHH, seguito da una sagoma scura, che si fermò appena oltre lui. Il cuore gli andò in gola congelando ogni sua mossa. La fetta di luce che usciva dalla lampada illuminava Smer immobile dove finivano le impronte di Ferrino, circondate da molte altre grosse impronte che appiattivano il bosco mostrando il marrone della terra ben aggrappata alle radici dei grossi alberi.

«Ma sei pazzo? Mi hai fatto prendere paura. Andiamocene ora, che torniamo domani». Nicolò si stava chinando per prendere in braccio Smer quando sentì un altro rumore accompagnato da uno spostamento d’aria, prima sulla testa, poi alle sue spalle.

Non ebbe il coraggio di voltarsi.

4

«Uhu, i bambini non dovrebbero venire nel bosco da soli, menchemeno la notteuuu», disse improvvisamente una voce profonda come non aveva mai sentito. Stava rimpiangendo il suo letto, l’essere uscito, la camera calda, Mattia che lo avrebbe difeso. Qualsiasi cosa gli stesse parlando, avrebbe voluto non essere lì.

Si girò lentissimo, così lento da non ricordare quanto ci avesse messo, sperando che nel frattempo quella voce non ci fosse più. Si trovò di fronte agli occhi più grossi che gli fosse mai capitato di vedere. La pupilla era un taglio nero in due sfere gialle enormi in cui si specchiavano ricurvi lui, Smer, la lampada e tutto il bosco attorno. Le piume che li circondavano erano appuntite sulla testa a formare due orecchie aguzze mentre un disegno più chiaro convergeva verso il becco che terminava in una punta affilata. Non credeva che un gufo reale potesse essere alto come lui.

«S-s-s-s-scusi, io non-non-non volevo», fu la prima cosa che gli uscì dalla bocca.

«Volere o uhu non volere. Ormai sei qui e quuuuualcuno ti vuole parlare». Fu in meno di un istante che, wussshhh, le ali del rapace si spalancarono per allungare le zampe verso Nicolò e Smer e sollevarli da terra. Il bambino non fece in tempo a spaventarsi nel sentire i grandi artigli avvolgergli la pancia e la schiena. In pochi colpi d’ala erano già sopra il bosco e sentiva le grandi superfici di piume guadagnare quota sulla montagna. Nicolò tremava, ma Smer al suo fianco si godeva il volo. I pini che avevano già perso la neve, dall’alto sembravano delle stelle. A un certo punto il bosco finì e cominciarono le praterie imbiancate dove i ruscelli cristallizzati attraversavano la montagna come se stessero gocciolando rugiada. Il paese giù in basso era ormai solo un gruppo di fiammelle tremolanti come le lucciole in estate tra i campi.

Sotto la luna, più di tutto brillava il ghiacciaio che ormai era vicinissimo. Il gufo aveva smesso di salire e ora stava planando verso i picchi che, dalla casa, gli avevano sempre ricordato un castello. Solo avvicinandosi scoprì che lo erano davvero. I muri massicci si confondevano con la roccia e le torri spuntavano sopra tutto ma non erano abbastanza alte da eguagliare il palazzo che fino a poco prima aveva creduto essere la cima della montagna. Fu in quel momento che due puntini in basso presero vita diventando due grandi orsi bruni coperti da corazze che brillavano più del ghiaccio che li circondava. Insieme spalancarono la porta così larga che, wussshhh, il gufo ci atterrò dentro con le ali aperte appoggiando Smer e Nicolò di fronte a una scalinata con una donna bellissima in cima. Ancora più della bellezza lo stupì che il suo vestito era fatto di un velo d’acqua che continuava oltre il suo corpo e scendeva a ricoprire i gradini lisci come la fontana in paese.

«Benvenuto Nicolò, vi aspettavo – disse dal suo trono la donna allungando una ciotola di latte verso Smer, le gambe e le braccia erano lunghissime e potevano raggiungere ogni angolo della grande sala senza doversi alzare – sono Stellea, regina della montagna e ho fatto in modo che arrivassi qui perché abbiamo bisogno del tuo aiuto». Solo mentre parlava, Nicolò fece caso che c’era Ferrino seduto sul gradino più alto, proprio a fianco al trono. Tenendo le sue braccine di bullone tra le gambe, sembrava preoccupato in attesa di avere una risposta a qualcosa.

5

«Abbiamo bisogno della sincerità di un bambino – continuò Stellea – Ti stai chiedendo perché proprio tu?». In effetti Nicolò se lo stava domandando ma lei parlava come se potesse leggere il suo pensiero. «Perché già una volta hai conosciuto il Bosco Alto di notte. Così sono sicura che puoi superare il compito che sto per affidarti».

Compito? Un compito era l’ultima cosa che il piccolo si aspettava lì. «Non è un compito come quelli soliti della scuola, quelli che tutti possono risolvere. È un compito speciale per un bambino speciale. Nelle caverne sul retro della montagna vive la strega bavosa. Ormai non frequenta più nessuno e crede che nessuno la voglia più perché è vecchia. Così ha rapito i giocattolai, convinta che quando le avranno insegnato a fabbricare quello che i bambini desiderano, lei potrà avere tutta la compagnia che vuole e decidere chi sarà felice e chi no. Ti chiedo di andare a parlarle. Solo la voce di un bimbo può arrivarle dritta al cuore». Nicolò non fece in tempo a domandare come avrebbe raggiunto la caverna quando sentì il dorso della mano toccato dal pelo di un grosso animale. Girando la testa si accorse della presenza di un lupo grigio. Ne sentiva il respiro caldo, lo aveva affiancato assieme ad altri due, alti quasi fino alla sua spalla. Quello che sembrava il capobranco aveva una sella in velluto nero. Gli altri invece avevano un imbrago con tre tasche su ogni fianco. Ogni tasca era piena. Guardando meglio, notò che il fagotto di peli scuri che riempiva ogni tasca aveva due occhi neri e piccoli come due capocchie di spillo e un naso a punta sollevato verso l’aria.

«Le talpe ti aiuteranno quando sarai nel cuore della montagna e Ferrino verrà con te – disse la regina allungandogli il burattino fino alla sella sul lupo – lui è la prova che i bambini non possono perdere i loro sogni senza sprofondare nella tristezza».

Si incamminarono. I lupi conoscevano bene gli anfratti della montagna, ogni volta che i massi dividevano i sentieri, il capobranco imboccava senza esitazione un passaggio. Le rocce scorrevano veloci ai fianchi di Nicolò mentre con le mani si teneva al pelo dell’animale e sentiva gli spigoli di Ferrino pungere nella cintura. Le zampe felpate delle belve scivolavano sicure e zitte sulla traccia, fino a un punto in cui gli animali rallentarono per fermarsi e annusare l’aria. Quando si accucciarono, Nicolò poté di nuovo toccare terra. Erano di fronte a una parete più alta del campanile della chiesa. Una grossa crepa a forma di saetta la spaccava in due. All’improvviso fu investito da un gracchio seguito da uno sciame di pipistrelli. Fece appena in tempo a girarsi per trovarsi circondato e sentirsi sbattere alcuni di loro contro la schiena, ma riuscì a non gridare, rassicurato che i tre lupi fossero rimasti lì senza mostrarsi troppo preoccupati. La calma dei movimenti e lo sguardo del capobranco gli dicevano che poteva fidarsi. Qualsiasi cosa sarebbe successa, loro sarebbero stati lì ad aspettarlo.

Intanto le talpe erano scese e si erano allineate di fronte alla fessura come a formare un grappolo di palle di pelo lungo tanto quanto Nicolò da sdraiato. Stava guardando quello strano tappeto quando il naso del lupo grande lo spinse delicatamente verso gli animaletti.

«Devo cavalcarle?». Il lupo mosse la testa in un sì. Nicolò raggiunse allora la formazione di animaletti e ci si sdraiò sopra, provando la sensazione di un materassino fatto di palloncini. Quando il tappeto iniziò a muoversi si rese conto di come le talpe riuscissero a scivolare dappertutto, muovendosi sotto di lui come un torrente in piena e facendolo galleggiare sul pelo.

6

Nei punti più stretti avanzavano lungo la caverna e Nicolò a pancia in giù sentiva la volta sulla schiena. In altri momenti doveva aiutarsi come nuotando, toccando le rocce che a tratti erano umidicce o rivestite di muschio. Quando sembrò che non potevano andare oltre, un ultimo passaggio lo costrinse a scendere dalle talpe e a strisciare, con due animaletti davanti a fare strada e gli altri dietro a spingerlo. Li sentiva respirare forte con i cuori che battevano veloci per la fatica. Arrivarono a un improvviso slargo illuminato da una luce soffusa che scendeva dall’alto e creava delle ombre in movimento sulle rocce. Un ombra in particolare camminava sulla parete. Ansimava e produceva il sibilo fastidioso di una bocca malforme. Le talpe si alzarono in piedi e si disposero in cerchio attorno a Nicolò, alzandosi sulle zampe posteriori e formando una corona di artigli con le loro grosse unghie abituate a scavare.

«Cosa vuoi?», domandò una voce gracchiante che sembrava venire da ovunque.

«Parlarti».

«Io non voglio parlarti», tra una parola e l’altra la voce emetteva una specie di gorgoglio, non era armoniosa né rassicurante come quella della regina.

«Ti chiedo scusa se sono entrato qui – la testa di Nicolò continuava a spostarsi per seguire l’ombra – mi manda la regina», aggiunse.

«Buona quella, capace solo di fare la signora, là sulla sua cima che tutti si divertono a salire». Nonostante l’ombra non rimanesse ferma, la voce continuava ad arrivare indistinta.

«Mi manda a dirti che tutti i bambini hanno bisogno dei loro sogni», mentre parlava si rese conto che l’ombra ingobbita della strega ad ogni passaggio sulla parete lasciava una scia gocciolante come la bava delle lumache sulle foglie.

«E perché dovrei ascoltarti?». L’ombra allungava le dita sottili nell’aria ricordandogli le punte dei rami secchi degli alberi in inverno. Sulla parete opposta Nicolò riconobbe le sagome di Ugo e Teo, chini su un tavolo a lavorare con delle catene ai piedi. Tra le parole, l’eco delle gocce scandiva il tempo e l’odore di umido.

«Perché domani compirò nove anni e senza il mio giocattolo non sarò felice come gli altri bambini».

«E perché uno dovrebbe essere felice?».

«Perché è meglio essere felici che tristi, cioè – Nicolò pesava le parole stando attento a pronunciarle verso la strega – il mondo funziona meglio se lo si è. Pensa alle facce dei bambini che non possono avere più giocattoli. Smetterebbero di essere contenti… e se noi smettiamo di ridere, chi guarderete voi grandi per capire il bene che si prova quando si ha quello che si desidera?». L’ombra allungò la mano per afferrare la testa di Nicolò.

7

Le talpe si strinsero ancora di più attorno a lui, al punto che il bambino avvertiva il calore del pelo. Stretto nel gruppo, Nicolò sentì pungere il fianco e si ricordò di Ferrino. Essendo di metallo poteva usarlo per difendersi. Chinando la testa per evitare le dita gocciolanti della strega, lo estrasse dalla cinta e lo impugnò come se fosse una spada. Il collo era l’impugnatura e le gambe appuntite verso l’ombra erano le due lame. Appena ferro e ombra entrarono in contatto, le dita della strega si ritrassero.

«Cos’è questo?», domandò con voce sofferente.

«La mia arma, disse vergognandosi di quanto fosse brutta. Nel momento in cui Nicolò alzò Ferrino, dal tubo che era il suo corpo iniziò a uscire un cono di luce che colpì la parete. Nel riquadro illuminato iniziarono a scorrere immagini. Bambini che ridevano, giocavano, correvano in campi d’estate, facevano pupazzi in inverno. In tutte le scene non c’era un adulto che non sorridesse contagiato dal buon umore. Da Ferrino continuavano a uscire storie e, mentre prendevano forma, la grotta si faceva meno buia e si propagava il colore dei prati quando fioriscono, che non sono un colore solo ma tutti i colori assieme. Più fiori spuntavano dall’umido della roccia e meno Ferrino sembrava il pupazzo arrugginito che Zanzone aveva portato. Quando la grotta fu completamente tappezzata di petali, la bava era diventata rugiada e Nicolò si ritrovò all’improvviso nel proprio letto con a fianco la mamma e Mattia.

Si fissarono in silenzio.

Per terra nella stanza c’erano i suoi vestiti con attorno una pozzanghera d’acqua mentre fuori dalla porta si intravedevano Ugo e Teo che tenevano in mano un burattino che da lontano pareva simile per proporzioni a Ferrino. I giocattolai alzarono la mano per salutarlo e Nicolò rispose con lo stesso gesto. Visto da vicino, il burattino era un uomo massiccio e tutto snodato che indossava una specie di corazza che gli faceva spuntare un terzo braccio, snodato come il corpo. All’estremità c’era una scatola magica con un lato trasparente, appena presolo in mano iniziò a uscire un fascio di luce che proiettava oggetti animati sulle pareti vicino.

Nessuno aveva mai ricevuto un giocattolo così. La gente ne parlò a lungo.

La notizia fu perfino più importante di quella dei cacciatori che raccontavano di aver avvistato le impronte di tre grossi lupi nella neve fresca all’indomani della tormenta. Gli uomini coi fucili avvisavano di stare attenti, ma tra le case furono tutti impressionati dalla voce di quel bambino, persosi nel bosco anni prima, che invece rassicurava tutti dicendo che lui, di lupi così, non avrebbe mai avuto paura. E per aiutare la gente a capire cosa intendesse, girava le case mostrando il regalo del suo nono compleanno che proiettava a tutti immagini dei lupi, ma anche di orsi, talpe, gufi e uomini che vivevano insieme e in pace tra loro. La gente si sentiva subito più tranquilla e nel godersi la bellezza delle immagini pensava al bosco come alla preziosa cornice del loro paese. Tutti erano sicuri che quello successivo sarebbe stato un buon anno.

Il nero mortale, inquinamento della Val Padana

Tranquilli, non è di razzismo o di evasione fiscale che si parla qui, ma di aria. Quando ero piccolo era normale, ascoltando la radio, incappare nella voce delle previsioni meteo che perentoria annunciava “Nebbia in Val Padana”. Ovunque la sentissi, era un po’ come una bandiera, un sentirsi a casa. Non sapevamo esattamente cosa stavamo respirando, ma in certi giorni l’aria pesava. L’illusione che a distanza di quasi cinquant’anni le cose siano migliorate c’è.

O meglio, c’era. C’era prima di leggere articoli come quelli circolati all’indomani della divulgazione dei dati sul costo in vite dello sforamento dei limiti massimi di pericolosità dell’aria. I morti sarebbero almeno 300 all’anno, di cui l’80% nella sola Milano. Edoardo Croci, direttore di ricerca allo IEFE-Università Bocconi, ne ha parlato nel convegno “I costi dell’inquinamento atmosferico: un problema dimenticato“, organizzato da Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia Europea dell’Ambiente sulla qualità dell’aria in Europa, la Pianura Padana, nonostante la tendenza al miglioramento, resta la peggiore d’Europa in termini di qualità dell’aria, insieme all’area più industrializzata della Polonia. A Milano la responsabilità principale delle emissioni di PM 10, circa l’85%, è del traffico, e in Area C l’Agenzia Mobilità Ambiente Territorio (AMAT) ha stimato che oltre il 70% delle emissioni allo scarico è attribuibile ad auto e camion diesel euro 3 e 4 e a motorini a due tempi.

Praticamente penso ad una mappa dell’Europa e vedo nella mia Val Padana un’ombra nera. Vado con la memoria a certe giornate di cielo limpido che illumina le cascine tra i filari dei campi e nella testa mi passa che potrei vivere anche tre anni in meno per le porcherie che respiro senza rendermene conto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha reso disponibile un manuale scaricabile.

Sono convinto che bike sharing, Area C, chiusura dei centri storici al traffico privato siano ottimi strumenti. Mi manca però una voce che dica esattamente quali sono i rischi che corro quando vado in bici, quando i miei nipoti giocano nel campetto, quando le mamme spingono i passeggini nel traffico. Forse l’informazione diffusa aiuterebbe a sensibilizzare anche con piccoli comportamenti responsabili come limitarsi nell’uso dell’auto, far controllare periodicamente la caldaia, far notare al vandalo atmosferico di turno che non si sta fermi un quarto d’ora col motore acceso mentre aspetti qualcuno. Spiegare bene nelle scuole i rischi che si corrono potrebbe essere l’inizio della soluzione. L’educazione che parte dal basso è davvero contagiosa e magari riuscirebbe a ridurre quella macchia nera sulla mia regione.