Durante la Digital Media Fest, Il video di idealista La famiglia è una sola realizzato per il Pride 2019 si è aggiudicato il prestigioso premio Teletopi 2019 nella categoria Citizenship, con la seguente motivazione: “Un video che ribalta il concetto dell’unicità della famiglia in ottica inclusiva”.
Che dire, se non che il video tocca per la sua semplicità e per il contesto molto italiano? Tante finestre quante le famiglie, tanti sguardi come le sfaccettature, a prescindere da colori della pelle e abitudini. Onore ai vincitori della gara, ma onore anche ai giurati che hanno riconosciuto il valore dell’iniziativa.
Per mia – personalissima – attitudine a non sbirciare nelle case altrui, reputo un po’ da guardoni l’idea della vista attraverso le finestre. Ammetto però che, se interpretato come un messaggio per metterci la faccia, il piano di osservazione dell’intero palazzo passa efficacemente, dalla coppia lesbo ai tenerissimi vecchietti, passando per la (un po’ scontata) coppia di palestrati da cliché “milanese”.
Dal sito di Idealista, creatore della campagna:
Lo storytelling è basato sulla forza propulsiva del bacio. Una sequenza di baci travolgente in un crescendo emozionale (pàthos) sulle note di “Va pensiero”, l’inno di liberazione per eccellenza, che esprime a pieno la potenza dei sentimenti e ci ricorda che la famiglia è un legame d’amore. Lo storytelling diretto, delicato e spontaneo, culmina nel claim La famiglia è una sola, un richiamo non casuale a una frase spesso utilizzata da chi sostiene la cosiddetta famiglia tradizionale. Noi abbiamo voluto fare nostro questo slogan andando “oltre” il senso comune.
State partendo o avete in programma di andare a New York questa estate? Ecco una miniguida di quel c’è da fare attorno al Pride, che quest’anno è WorldPride.
Sotto tanto colore e rumore, i Pride sono innanzitutto dei momenti sociali. Il picco di questo esercizio di memoria quest’anno è a New York, dove si ricordano i 50 anni di Stonewall e si tiene il World Pride.
Un po’ di storia. Stonewall è il nome di un bar. Nella notte del 28 giugno 1969, un gruppo di giovani si oppose a una retata della polizia, senza avere coscienza dell’ondata che il loro coraggio avrebbe suscitato. Paradossalmente, da lì a un mese una navicella americana sarebbe sbarcata sulla Luna, segnando «un piccolo passo per un uomo ma un grande passo per l’umanità», ma negli Stati Uniti gli uomini dovevano essere “uomini”, le donne dovevano essere “donne” e le virgolette significano che tra gente dello stesso sesso non ci si poteva scambiarsi effusioni in pubblico, ballare e tantomeno baciarsi. Un esempio su tutti: il Manuale diagnostico dell’American Psychiatric Association (l’Associazione Americana di Psichiatria) classificava l’omosessualità tra le malattie mentali. Più precisamente, nel 1952 come “disturbo sociopatico della personalità” e nel 1968 più precisamente come “disturbo mentale”.
Tornando allo Stonewall Inn, nacque come un qualsiasi night
club di New York. Fiutando un possibile affare, la famiglia mafiosa dei
Genovese lo trasformò in un bar per omosessuali, pagando anche tangenti alla
polizia per non essere “disturbata” nell’esercizio. Di fatto, tutti quelli che
dovevano sapere, avevano ben chiaro che lo Stonewall era l’unico luogo pubblico
dove i gay potevano ballare e scambiarsi effusioni senza rischiare l’arresto. Un
paradosso che mi tocca da vicino e rende ancora più grave il tutto: l’identità
della comunità in cui mi riconosco, ha dovuto passare dalla mafia per innescare
il cambiamento. E se questa era New York, immaginiamo il resto dell’America (e
del mondo).
Dunque, di fronte alla polizia, alcuni reagirono. Erano
persone che oggi identificheremmo come membri della comunità LGBTQ. Ma era il
1969 e la sigla era ancora lontana, la lotta per i diritti era negli stadi
embrionali e nessuna parata pubblica era mai stata organizzata. Già 10 anni
prima ci fu una rappresaglia della polizia a Los Angeles nei confronti di un
gruppo di trans, lesbiche e gay che scesero a manifestare, ma il fatto che
Stonewall fosse New York, diede un altro risalto alla notizia. La comunità non
chiedeva più solo di essere lasciata in pace, ma rivendicava diritti.
I moti coinvolsero la prima sera 600 uomini e donne, che
triplicarono la sera successiva. Il tutto durò una settimana, in cui furono
chiamate a sostegno tutte le anime che in qualche modo condividevano la voglia
di affermare dei diritti.
«Stonewall fu come un piede improvvisamente pigiato sull’acceleratore – dichiara Cathy Renna, italoamericana dirigente di Target Cue – si passò dai venti all’ora ad andare a tutto gas e le notizie si propagarono velocemente in città come Philadelphia e Washington, dove la comunità era già in fermento».
«I moti di Stonewall furono un punto di svolta e un esempio
per la diffusione delle manifestazioni nel mondo – precisa all’LA Times Eric
Marcus del comitato Stonewall 50
– e trovo molto ispirante che proprio una delle fette di società che
fino ad allora era considerata più debole e timorosa, reagì e si oppose alla
polizia».
Già l’anno seguente si organizzarono i primi Pride e una parte di mondo prese coscienza dei diritti di una comunità. Il fatto che, a cinquant’anni di distanza, a New York si ospiti il World Pride è dunque l’occasione per una grande festa che, dicono gli organizzatori, arriverà a richiamare milioni di persone. Per la cronaca, la NYPD (il dipartimento di polizia della città) ha formulato le scuse per quanto successo e ha pure decorato alcune delle sue auto per onorare il Pride. Meglio tardi che mai, si dice.
Tra colore e cultura, che scegliate i giorni del Pride o quelli limitrofi, un po’ di spunti incoraggiano a saltare su un aereo e inserire la Grande Mela nelle prossime destinazioni. Al proposito, la compagnia Air Italy è la prima in Europa ad ammettere tra le generalità di bordo il terzo genere oltre a maschio e femmina, ponendosi di fatto si pone in prima linea nell’accettazione delle diversità.
Il punto di riferimento storico per capire la portata di quanto successe, è alla biblioteca centrale di New York. Il monumentale edificio della Public Library, famoso per aver ospitato i set di moltissimi film ambientati in città, ospita al piano superiore Love and Resistance: Stonewall 50. Nella galleria fotografica c’è la cronistoria di quanto accadde allo Stonewall Inn, ma anche molto di quello che c’era intorno, come libri, riviste, attività culturali, primi tentativi di costruire un’identità che fosse aperta anche all’esterno della comunità. È probabilmente la più completa rassegna mai raccolta, degna anche per trasmettere lo spaccato della città all’epoca.
Nell’area di Christopher Street si organizzano tour guidati. La cartina si scarica gratuitamente in internet, così potete scoprire le tappe e dosarvele anche per conto vostro. La zona è salvaguardata dalla stessa legislazione dei parchi nazionali americani e include tutti i luoghi che toccarono quei giorni, a partire dallo Stonewall Inn e dalla deliziosa piazzetta che lo fronteggia. Se gli interni sono (purtroppo) cambiati, l’esterno e i dintorni si riconoscono facilmente nelle foto dell’epoca. Le statue nel centro dello spazio, con il loro bianco cangiante, sono un monito a ricordare chi ci ha preceduto. Il tour di un’ora tocca il Julius Bar, rimasto identico a quando furono scattate le immagini storiche esposte alla library.
A breve, altre statue, non distanti, ricorderanno Marsha Johnson e Sylvia Rivera. Di fatto, sarà il primo monumento trans della città e, forse, al mondo. Sylvia e Marsha ebbero anche una parte nei moti. Qualcuno sostiene fin dalla prima scintilla, altri riconoscono il coinvolgimento ma solo a moti iniziati. Poco importa: non è questione del “quando” ma del “cosa” si fece. La Johnson fu anche protagonista della serie Ladies and Gentlemen di Andy Warhol, espressamente dedicata dal re della pop art ai volti trans.
Tra i protetti di Warhol, in tema LGBT c’era anche Keith Haring. Aveva solo undici anni nel 69, ma più tardi, già da protagonista della Factory, avrebbe cavalcato il mondo LGBT di New York diventandone una star. Per quanto lo riguarda, la tappa da non mancare, è quella del Lesbian, Gay, Bisexual and Transgender Community Center. I new yorkers LGBT lo chiamano semplicemente The Center. Era un laboratorio della zona portuale agli albori del ‘900, ma grazie a donazioni oggi è diventato un punto di riferimento della comunità, con ambulatori, studio legale specializzato in difesa dei diritti, un bar, una fornitissima biblioteca e i disegni di Keith Haring nella stanza che era quella dei bagni. Per visitarla, chiedete alla reception e saranno ben felici di indicarvela. Tornerete in Italia avendo visto qualcosa che non è inclusa normalmente sulle guide.
New York rimane la capitale dell’arte contemporanea e non manca di confermarlo anche durante il il Pride Time, che comunque continua fino a metà luglio. Il Guggenhein celebra il momento con una mostra dedicata a Mapplethorpe, ma in giro per la città c’è parecchio fermento.
Vale lo sforzo di portarsi a Broadway e visitare la galleria Leslie Lohman. Nata da un lascito, mostra – senza veli di nessun tipo, preparatevi – una collezione privata con tutti i mostri sacri contemporanei che hanno toccato il tema.
Il Bronx Museum of Art celebra il Pride con una personale di Pacifico Silano sui silenzi subiti da chi, una decade dopo Stonewall, ha visto lo scatenarsi della piaga dell’AIDS.
Nella capitale della street art potrebbe venirvi voglia, come a chi scrive, di fare una scorpacciata di artisti da strada. Seguite il World Mural Project, per scoprire come una carrellata di writers si è misurati a riempire di colore i muri della città. Qualcuno sostiene che il vero talento contemporaneo stia qui, più che nelle gallerie patinate di Braodway.
Per chi pensa ancora che i Pride siano inutili, l’invito è andarci e scoprire il beneficio del contagio positivo. Al World Pride gli eventi sono davvero tanti, compresi quelli espressamente dedicati alle famiglie con bambini e i musical. Al Longacre Theatre c’è in scena The Prom. È la storia, ambientata negli anni ’60, di una ragazza che deve lottare per vedere riconosciuto il proprio amore per una compagna di scuola.
Dalla finestra della mia stanza al Moxy Chelsea ho tutta New York ai miei piedi. L’hotel è tra i più LGBT friendly. E’ un’esperienza andarci anche solo per salire al roof top bar. Ma è anche un’esperienza starci. l’ingresso è molto soft e non fa sentire la mancanza della natura grazie alla parete di verde verticale del negozio di fiori della coppia Putnam & Putnam. La distanza tra il marciapiede di Stonewall e il vetro segna 50 piani e 50 anni. Non c’è nemmeno un davanzale, come fosse un equilibrio precario, basta niente a cadere e tornare indietro. Tra me e il mondo solo una vetrata che si affaccia senza nascondere nulla. Non basterebbe tutta l’estate a vivere la città. Balli, feste, mostre, momenti di riflessione. Sono chiusi dall’orizzonte oltre la Statua della Libertà che è un puntino sullo sfondo. Si dice che a Manhattan l’Hudson sia come l’oceano, oltre la linea della sponda tutto sia lontano. Una copertina del New Yorker disegnata nel 1976 da Steinberg lo spiega benissimo. Ecco, partendo da questa immagine, e dalle grida di protesta del giugno 1969, penso che il più grande successo del World Pride non sarà di raggiungere i quattro milioni di gitanti festosi che tutti si aspettano, ma di sgretolare la distanza tra la Grande Mela e le Stonewall che il mondo purtroppo ancora aspetta.
Dunque grazie NYC per quello che farai. Buon World Pride a te e a tutti quelli che, come solo tu sai fare tra le grandi metropoli, accoglierai a braccia aperte.