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Il traffico e le code ci rendono acciughe un mese ogni anno

A causa del traffico, piaccia o no, sono almeno 23 i giorni che trascorriamo in macchina ogni anno, e molti di questi giorni li trascorriamo in coda. Lo rivela uno studio promosso da Ipsos e Boston Consulting Group per l’Osservatorio Europeo della Mobilità. Perdendo 128 minuti al giorno siamo in fondo alla classifica europea, davanti solo della Grecia.

Oltre due ore rubate a una esistenza più rilassante che potrebbe essere quella del meditare, del dedicarsi alla cucina, dello stare con gli amici, leggere un libro. Mettetecene quante ne volete di voci, fatto sta che questo tempo trascorso in scatola a me da proprio l’impressione di essere un uomo stretto. Del resto, se fossimo nati per stare in macchina forse avremmo avuto le ruote e la spina dorsale a forma di sedile. Invece no.

Usiamo auto per andare a lavorare o a studiare (69 per cento contro la media europea del 61%), per andare a fare la spesa settimanale (86% contro il 76%), per star dietro ai figli (64% contro il 56%) probabilmente convinti di proteggerli quando invece gli stiamo solo dando un cattivo esempio.

A onor del vero, all’essere auto-dipendenti corrisponde contemporaneamente l’essere tra i primi a usare la bici – va al lavoro o a scuola il 6% degli intervistati – e alcune nostre città sono in testa alle classifiche europee.

Vuoi vedere che allora il problema è in quello che ci sta in mezzo, l’isola tra lo scegliere la bici e lo spostarsi in auto privata? La nota barcollante è in effetti il nodo dei mezzi pubblici. Agli intervistati mancano i collegamenti di coincidenza, i raccordi parcheggi-linee, le aree di interscambio dove finiscono le autostrade e iniziano le città.

Rimedi? Ne butto un po’ sul tavolo da cittadino, avendo ben chiaro che i pesi delle infrastrutture vanno valutati caso per caso e circostanziati sulle necessità individuali. Forse dobbiamo sviluppare una mentalità più disposta a qualche piccolo sacrificio, non c’è niente di male a camminare per 15 o 20 minuti lungo un avvicinamento, ne beneficerebbe il nostro fisico e limiteremmo l’inquinamento (“secondo i ricercatori dell’Harvard Center for Risk Analysis, il traffico delle 83 più grandi città degli Stati Uniti ha causato nel 2010 più di 2.200 morti premature e ha fatto spendere alla sanità pubblica 18 miliardi di dollari”).

Poi potremmo davvero unirci per chiedere agli amministratori azioni forti come biglietti integrati, corse speciali, mezzi attrezzati a trasportare le bici (l’unione fa la forza – e i voti – dopotutto).

Un’altra soluzione sarebbe quella di incentivare il telelavoro: siamo davvero sicuri che non potremmo lavorare almeno un giorno alla settimana da casa, o dalla biblioteca, o dal parco locale?

Sono poi un grande sostenitore del carpooling: basta posti vuoti in auto se si usano app come quella di BlaBlaCar, che in Francia sta addirittura sperimentando una specie di servizio di linea su tratte precise battute dai pendolari.

Esistono anche rimedi non risolutivi per il numero delle auto circolanti, ma almeno agevolanti per il traffico. Per esempio educare chi guida a consultare le app per risparmiare minuti di coda. Oppure si potrebbe scaglionare ingressi e uscite da uffici, fabbriche e scuole. Un po’ come si fa per le partenze intelligenti delle vacanze.

Il trucco sta nel non essere deficienti noi nel pretendere di muoverci tutti agli stessi orari e chiedere sempre più strade perché quelle vecchie non ci bastano più. Insomma, basta mari di asfalto perfetti solo per le sardine contemporanee che nessuno di noi vuole essere.

Le iene: amarsi oltre la morte

Quando scrivi un documentario cerchi di limitare al massimo le contaminazioni per riportare nel più fedele dei modi la realtà. Il servizio delle Iene Amarsi oltre la morte trasmesso il 19 febbraio non è un documentario, ma mi piace pensare che lo sia. Racconta l’amore scevro da ogni costruzione intromettendosi in una storia e aggiungendo qualcosa. La Iena è partita dal messaggio di una persona che, prossima al decesso, voleva che al suo compagno fossero riconosciuti i diritti equiparabili a quelli di due persone sposate. Quei minuti di interviste incrociate e di confessionali hanno toccato il cuore di parecchi italiani. Dimostrano soprattutto che, se una legge può essere sbagliata, anche l’assenza di una legge può essere sbagliata.

Il servizio accenna anche al contratto di convivenza, un palliativo che comunque offre almeno un primo grado di tutela. A monte di tutto però c’è la storia che ti sbatte in faccia una delle molte situazioni in essere quando due individui non sono legati in matrimonio. Badate che è del tutto marginale che qui siano raccontate due persone dello stesso sesso, una delle quali purtroppo viva ora solo nei ricordi di chi l’ha amata. Sfido chiunque, di qualsiasi credo religioso o visione politica, a non trovare negli sguardi dei due protagonisti un’ottima ragione a varare una legge la cui assenza continua a rimanere una grande ingiustizia. Il capo del governo aveva fatto delle promesse precise, il suo vice ha vietato però le trascrizioni dei matrimoni contratti all’estero, poi vedo in tv servizi come quello sopra. Mi manca davvero qualche pezzo per fare dell’Italia il paese che vorrei.

Questo articolo, pubblicato anche sull’Huffington Post, è dedicato a Walter ed Ema. Walter era di Monza, come chi scrive. Un motivo in più, ne servisse uno, per sentirlo vicino.

Il nero mortale, inquinamento della Val Padana

Tranquilli, non è di razzismo o di evasione fiscale che si parla qui, ma di aria. Quando ero piccolo era normale, ascoltando la radio, incappare nella voce delle previsioni meteo che perentoria annunciava “Nebbia in Val Padana”. Ovunque la sentissi, era un po’ come una bandiera, un sentirsi a casa. Non sapevamo esattamente cosa stavamo respirando, ma in certi giorni l’aria pesava. L’illusione che a distanza di quasi cinquant’anni le cose siano migliorate c’è.

O meglio, c’era. C’era prima di leggere articoli come quelli circolati all’indomani della divulgazione dei dati sul costo in vite dello sforamento dei limiti massimi di pericolosità dell’aria. I morti sarebbero almeno 300 all’anno, di cui l’80% nella sola Milano. Edoardo Croci, direttore di ricerca allo IEFE-Università Bocconi, ne ha parlato nel convegno “I costi dell’inquinamento atmosferico: un problema dimenticato“, organizzato da Fondazione Ca’ Granda Policlinico di Milano.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Agenzia Europea dell’Ambiente sulla qualità dell’aria in Europa, la Pianura Padana, nonostante la tendenza al miglioramento, resta la peggiore d’Europa in termini di qualità dell’aria, insieme all’area più industrializzata della Polonia. A Milano la responsabilità principale delle emissioni di PM 10, circa l’85%, è del traffico, e in Area C l’Agenzia Mobilità Ambiente Territorio (AMAT) ha stimato che oltre il 70% delle emissioni allo scarico è attribuibile ad auto e camion diesel euro 3 e 4 e a motorini a due tempi.

Praticamente penso ad una mappa dell’Europa e vedo nella mia Val Padana un’ombra nera. Vado con la memoria a certe giornate di cielo limpido che illumina le cascine tra i filari dei campi e nella testa mi passa che potrei vivere anche tre anni in meno per le porcherie che respiro senza rendermene conto. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha reso disponibile un manuale scaricabile.

Sono convinto che bike sharing, Area C, chiusura dei centri storici al traffico privato siano ottimi strumenti. Mi manca però una voce che dica esattamente quali sono i rischi che corro quando vado in bici, quando i miei nipoti giocano nel campetto, quando le mamme spingono i passeggini nel traffico. Forse l’informazione diffusa aiuterebbe a sensibilizzare anche con piccoli comportamenti responsabili come limitarsi nell’uso dell’auto, far controllare periodicamente la caldaia, far notare al vandalo atmosferico di turno che non si sta fermi un quarto d’ora col motore acceso mentre aspetti qualcuno. Spiegare bene nelle scuole i rischi che si corrono potrebbe essere l’inizio della soluzione. L’educazione che parte dal basso è davvero contagiosa e magari riuscirebbe a ridurre quella macchia nera sulla mia regione.

Eternit: l’ecologia del camaleonte

La brutta storia dell’Eternit sembra essere finita nel nulla. La sentenza di prescrizione vanifica la protesta di quanti sono rimasti a piangere le vittime di questo materiale che aggiunge alla morte un senso di incognito legato alla letalità, che può manifestarsi anche dopo 30 anni dall’aver respirato quella sostanza che nessuno ci aveva detto cosa provocava. Non stia tranquillo chi non ha lavorato nella fabbrica della morte. Basta un singolo frammento ad ammazzarti. Significa, ad esempio, che io, mio fratello e tutti i nostri compagni che hanno frequentato il liceo di Monza dove il soffitto era in formelle di eternit siamo potenziali morti per amianto.

Dall’altra parte di tutto questo casino c’è un tranquillo signore svizzero che dal suo buen ritiro dorato dichiara di aver sposato la causa dell’ecologia e avoca a sé il merito di aver capito in tempo i rischi dell’eternit . Peccato che Stephan Schmidheiny è in realtà il signor eternit in persona, essendo stato il vertice proprietario del colosso industriale che gestiva lo stabilimento di Casale Monferrato. La verità è che all’epoca sembrava di aver trovato il materiale perfetto, con quel nome che grondava infallibilità e durevolezza, più o meno come il Titanic. Le vittime che la vana gloria dei mari fece nel colpo di una notte, il materiale in questione le ha moltiplicate negli anni in cui fu celebrato come l’uovo di colombo non solo dell’edilizia ma anche del design. Nel museo Toni Areal di Zurigo, dedicato alla creatività elvetica, c’è perfino un angolo a lui dedicato, senza una mascherina o un solo cenno alla pericolosità di quel che si sta osservando.

Tra le tante posizioni lette in questi giorni ho apprezzato quella di Beppe Severgnini che dalle pagine del Corriere spiega perché siamo al caso di “innocenti per debolezza”. Il suo è un incipit che andrebbe scolpito davanti a qualche tribunale e a molte aziende, a partire da quelle finite su tutti i giornali.

Dopo ThyssenKrupp, Eternit. Una coincidenza che sa di beffa e provoca frustrazione. Nessuno chiede colpevoli per forza; ma neppure innocenti per debolezza. Debolezza delle norme, delle procedure, di chi deve applicarle. Umiliante: non c’è altro aggettivo per descrivere quant’è accaduto.

Con camaleontica sfrontatezza, Schmidheiny chiede ora protezione allo stato italiano per non essere più coinvolto in quelle che lui stesso definisce “processi ingiustificati”. Esca dal suo rifugio e venga a farsi un giro a Casale, Stephen. Ne abbiamo abbastanza di casi in cui l’industriale di turno rinnega il lavoro dei suoi sottoposti che han fatto disastri con persone e ambiente. Se la morte di un uomo è una tragedia, una sciagura in un antro polveroso, mille morti non sono una statistica asettica solo perché monitorate da un tabulato su una scrivania luccicante. In Italia, come nel resto del mondo, le tragedie vanno punite, non prescritte.

La nuova arca, niente Noah ne Russel Crowe ma un frigorifero

Con Noè e Russel Crowe torna alla ribalta il tema dell’arca. Ma se non fosse una citazione biblica, si rinunciasse al legno di uno scafo e ci si ponesse nelle condizioni di andare molto in là nel tempo? 


L’arca del terzo millennio è sicuramente molto meno affascinante. Immaginiamola come un grosso congelatore, anzi una rete di grossi congelatori chiamati criolaboratori dove cellule ed embrioni sono conservati a -225 gradi celsius. In taniche di azoto liquido sono sospesi interi zoo. I frozen zoo di San Diego, Melbourne e Londra sono i più celebri e insieme conservano 48.000 campioni cellulari di 5.500 specie. Lo scopo? Mantenere la memoria biologica del soggetto e aspettare che un giorno la scienza consenta di riportarlo in vita.


Garanzie di successo non ce ne sono. Nel 2008 provarono a isolare un frammento di dna da un esemplare di tigre della Tasmania conservato sotto alcol da oltre un secolo. Manipolato con il genoma di una cavia, il dna diede segni di reazione. L’esperimento non andò oltre ma il proseguimento degli studi sulle cellule staminali e i progressi della genetica lasciano sperare che in qualche decennio si potranno crescere in laboratorio animali interi partendo dalle cellule indotte a diventare spermatozoi e ovociti.
Nell’attesa, gli effetti speciali iniziamo a goderli al cinema.

PS: A chi si domandasse se qualcuno lo ha già pensato anche con uomini, rispondo “sì”. E’ stato fatto e con corpi interi congelati prima della morte, ma questa è tutta un’altra storia.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.


E se domani diventassi un bosco, Gibran che direbbe?

Vi piacciono le parole di Gibran e per voi un bosco non è un ammasso di alberi? Se pensate di aver già letto qualcosa di simile, non vi sbagliate. L’urna biodegradabile per le ceneri che, contenendo dei semi, può generare un albero ha riscosso un certo interesse. 

Ora, correndo il rischio di passare per necroforo, segnalo un progetto arrivato alla mia pagina facebook dopo la pubblicazione in questione: un lettore, che ringrazio, mi ha segnalato il progetto Capsula Mundi, il primo progetto italiano di sepoltura naturale.


Due designer italiani, Anna Citelli e Raoul Bretzel, qualche anno fa hanno ideato una capsula biodegradabile in plastica di amido che, opportunamente collocata nel terreno con all’interno il corpo del defunto, diventa una fonte di risorse per gli alberi in crescita. Non si sono limitati al contenitore, ma ne hanno anche immaginato la collocazione. Riunirne un po’ e farne delle riserve. Il progetto è chiaro: basta cimiteri in spigoli di marmo e ben vengano boschi della memoria. La filosofia alla base è quella per cui l’uomo non appartiene solamente alla razza umana, ma alla vita del pianeta nella sua complessità e per questo deve rimanere nel ciclo della trasformazione. Cito dal progetto.

Fin da quando l’uomo ha potuto esprimersi con la scrittura, l’albero simboleggia l’unione tra la terra e il cielo, tra il materiale e l’immateriale, tra il corpo e l’anima. Il mondo vegetale è l’elemento di contatto tra noi, organismi complessi e il mondo minerale, dal quale non possiamo trarre direttamente nutrimento. Per produrre una bara oggi si abbatte un albero ad alto fusto, spesso di essenze pregiate, quindi a lento accrescimento. E’ l’oggetto con il più breve ciclo di vita (è il caso di dirlo) prodotto dalla nostra società, ne consegue il più alto impatto ambientale (la crescita di un albero richiede dai 10 ai 40 anni, a fronte di tre giorni di fruibilità del prodotto!). Capsula Mundi è prodotta con materiale biodegradabile al 100% e realizzato da “plastica” di amido (l’amido si ricava da piante con ricrescita stagionale, quali patate e mais). Capsula Mundi risparmia la vita di un albero e anzi, propone di piantarne uno in più. Un albero accanto all’altro, di essenze diverse a creare un bosco, magari lì dove un bosco è scomparso. Un luogo in cui i bambini potranno andare ad imparare a riconoscere i diversi tipi di alberi (educazione ambientale) oppure in cui recarsi per una passeggiata e ricordarsi di persone che non ci sono più. Un bosco che godrà il rispetto della popolazione e sarà anzi protetto da possibili scempi, grazie al coinvolgimento emotivo di tutta la collettività.

Bellissima la parte del sito dedicata alla scelta del tipo di albero. Fateci un giro, scoprirete qualcosa che magari vi manca sugli alberi. Ad esempio, narra la leggenda che sulla tomba di Adamo, sul monte Tabor, nacque la pianta di ulivo il cui seme proveniva dal paradiso terrestre. Il mio fratello d’anima Alessio, racconta ogni tanto del suo bosco d’ulivi nella valle del Tevere. Da lì la vista spazia tra le colline umbre e l’appennino. Non mi dispiacerebbe immaginarmi lì, un giorno.

Citando Gibran e il suo “Gli alberi sono liriche che la terra scrive sul cielo” (da Sabbia e Spuma, 1926) o, se preferite, Diego Cugia con “Non terrorizzate i vostri bambini con la vita eterna. Ditegli che da morti si diventa alberi. I grandi alberghi degli uccelli.” (da Jack Folla. Alcatraz, 2000), questo è davvero un altro modo di vedere oltre la barriera della vita come la intendiamo. E non crediate che sia contro i principi della religione, perché aver dato le proprie ultime risorse corporee per generare una nuova vita non è contro nessuna legge, divina, umana o scientifica.

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.

Ecologia, un albero dopo la morte

Preferire essere una lapide con una triste scritta o un albero che si lascia accarezzare le chiome dal vento? Quando, prima o poi, ci capiterà di arrivare all’unico evento certo della nostra vita, quella di diventare un albero è una delle possibilità. Questo contenitore (biodegradabile) ha al suo interno tutto il necessario, compreso il seme, per far spuntare una pianta attingendo anche dalle nostre ceneri. Il tipo di albero è a scelta. Sono indeciso tra noce e ulivo.
Ringrazio Alessio Ciani per la segnalazione.

La foca che muore è un brutto segnale

Si intensificano nell’Oceano Pacifico ritrovamenti di foche gravemente malate o morte. Se in un primo momento il fenomeno si riteneva essere una delle drammatiche conseguenze del disastro di Fukushima, ora pare che le cause dell’epidemia possano essere altre, comunque imputabili all’azione dell’uomo.

I sintomi che portano alla morte, e che sembrano riguardare anche alcuni esemplari di trichechi, sono acqua nei polmoni, ingrossamento del cervello nella scatola cranica, anomalie nel fegato, perdita del pelo e lacerazione della cute fino a scoprire il muscolo. Tutte patologie che portano alla morte dopo atroci dolori.

Escluse momentaneamente le radiazioni, non c’è da stare tranquilli. I ricercatori puntano il dito su fattori di stress e intossicazione da tossine, effetti legati anche alle conseguenze del cambiamento del ghiaccio e di certi fattori climatici. Le immagini che ci arrivano non lasciano sperare una soluzione a breve. Le cause potrebbero essere troppe.

C’è un segnale preoccupante che volenti o nolenti prima o poi dovremo cogliere: radiazioni o no, prima o poi tutto quello che produciamo o trasformiamo finisce in mare. Dal mare, però, è uscita anche la vita che ha iniziato l’avventura sulle terre emerse, di cui la civiltà contemporanea è solo l’ultima scena. E se adesso proprio dal mare iniziasse a uscire la morte, sapremmo capire in tempo la lezione?

Il cucciolo di babbuino e il giovane leopardo

A volte la legge della natura andrebbe riscritta, o quanto meno meriterebbe l’aggiunta di capoversi tipo “se una creatura è indifesa va protetta senza condizioni”.
Le immagini del documentario sono eloquenti, potremmo fermarci a queste. La storia completa, però induce altre riflessioni, rendendo l’episodio indimenticabile.

Questo argomento è stato segnalato da Alessio Ciani.