Ci siamo abituati a pensare alla Cina come a uno dei mostri inquinanti del pianeta. E non siamo troppo distanti dal vero. Basta guardare la classifica degli ammorbatori di Gaia per notare come il colosso dagli occhi a mandorla abbia una politica economica il cui costo è caro. Carissimo.
Si manifesta in sostanze tossiche emesse in ambiente – suolo e atmosfera – e in decessi. Se nel primo ambito gli effetti non sono facilmente misurabili nel breve periodo, con l’ulteriore difficoltà di capire come il danno si propaghi, i cinesi conoscono purtroppo molto bene il peso in vite umane. Le particelle note come PM2,5 che possono scatenare attacchi di cuore, ictus, cancro ai polmoni e asma uccidono silenziosamente 1,6 milioni di cittadini all’anno.
Azioni di compensazione
Il governo ha bisogno di mostrare che sta facendo qualcosa. Internamente a chi pone domande sui tassi di mortalità e fuori dai confini per dare almeno l’impressione di una presa di coscienza. La notizia è che c’è in corso un programma di riforestazione su un’area paragonabile alla superficie italiana tra il Brennero e Firenze con tutto quello che c’è di mezzo e intorno.
La nota ci arriva dalla Princeton University, che però non risparmia le critiche al modo in cui l’imponente operazione è messa in atto. Quando i numeri sono nell’ordine di grandezza dei milioni – siano esseri umani, fatturato, ettari di terra, litri di acque, scegliete voi ricordando quanto è grande la Cina – i ragionamenti vanno oltre l’esperimento per diventare un caso mondiale.
Il noto ateneo americano, dopo aver analizzato per due anni i programmi scientifici alla base del progetto, ha evidenziato un errore di fondo: i cinesi stavano puntando tutto sulla concentrazione di monoculture e non sulla foresta originaria. Praticamente avevano piantato aree di soli eucalipti, soli bambù, soli cedri del Giappone e non la combinazione delle specie. L’assenza di biodiversità avrebbe potuto così, sempre secondo gli studiosi, ripercuotersi sulla fauna locale in termini quasi peggiori che non l’inquinamento. Ora il tiro pare sia stato corretto.
Non stupisce che tra gli indicatori siano stati utilizzati uccelli e api. I primi utili per capire come lo sviluppo della foresta si ripercuota sulla fauna che ci vive, le seconde per avere un quadro delle specie floreali presenti. Nelle foreste di monocolture gli uccelli tendono a essere meno numerosi e meno variati. Le api soffrono invece per fioriture limitate che possono portarle a sciamare altrove. Tutto questo non succede quando le piantumazioni sono il più vicino possibile alla foresta originaria.
La via italiana
La lezione può essere tradotta in italiano. Quando i nostri vecchi curavano i boschi, si accertavano che le specie fossero in equilibrio e – senza lauree o laboratori – sapevano che la montagna sarebbe così stata al suo posto senza rovinare a valle e continuando a dare da mangiare e scaldare.
Dissesto, risorse e legna erano gestiti a livello di villaggio e comunque funzionavano. Nel loro piccolo, ma davano da vivere. Molti dei rimedi sono oggi on line, ora anche in una pubblicazione scaricabile gratuitamente.
Ma niente è come il poter andare in uno dei villaggi tra Alpi e Appennini e ascoltare gli anziani. Fatelo, scoprirete un mondo. Puntate al bar del paese, li troverete magari a giocare a carte, soprattutto troverete un libro aperto sull’ambiente. Cose che la Princeton o il più agguerrito degli ambientalisti neanche si sognano.