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C’era una volta (quel) west

Se doveste pensare a un luogo tranquillo dove andare in vacanza e vi piacesse da morire il cinema, ho il posto che fa per voi. Nell’estate in cui sarà meglio avere un po’ di spazio intorno, ecco un angolo d’Europa perfetto per isolarsi come in un film di Lawrence d’Arabia, avventuroso per scoprire l’Indiana Jones che è in voi, ideale per calarvi nel west che ci ha fatto sognare.

Ad attestarlo non sono (solo) io ma la European Film Academy, che ha dichiarato il deserto di Tabernas, in Andalusia, “tesoro della cultura cinematografica europea”. Questa parte della Spagna è strana, non aspettatevi la movida di altre aree. Già il piccolo aeroporto è una scommessa sui freni dell’aereo per non finire a mollo. Giuro, parla una foto per me. Ma il resto arriva subito a ruota.

C’era una volta quel

Vai in albergo e trovi il corridoio costellato delle immagini dei divi che sono passati di lì a girare. E ti viene normale fare la foto tra le star, ma è solo l’inizio. Per i più giovani il riassunto degli scenari potrebbe farlo il video Boum Boum Boum di Mika

Per gli over 40 il riferimento principale è invece al western. Non Arizona o Texas. Ma una terra con strade che tirano dritte come un colpo di fucile e ci trovi il Black Hotel della serie Black Mirror, oppure sterrati contorti che serpeggiano tra le rocce e sei nel West. Non è un West qualsiasi. Niente Arizona o Texas. È quello che c’è nella testa di quando ero bambino, davanti a uno schermo di cinema largo come tutta la parete dell’oratorio, che mi sembrava ancora più grosso un po’ perché ero piccolo io e un po’ perché non avevo ancora iniziato a viaggiare e il mondo mi sembrava molto più grande. 

Mi lasciavo ingoiare dalla panca in legno col sedile basculante che era duro e mi costringeva ad alzare la testa per guardare. Dovevo tenere il collo un po’ piegato all’indietro e alla fine mi sentivo pure indolenzito, come se avessi cavalcato anche io nello schermo tra quelle montagne. 
Però ero nel film. Lì, a fianco di Henry Fonda e Charles Bronson mentre si guardavano in faccia per minuti infiniti prima di premere il grilletto fatale. Ero al fianco di Clint Eastwood a dargli man forte mentre faceva il giustiziere dell’avamposto di San Miguel. C’ero anche quando la dinamite fece saltare i binari sotto la vaporiera costretta a inginocchiarsi nella prateria mentre partiva l’assalto al treno tra urla e spari. 

Sono sempre stato più attratto dagli indiani che non dagli “altri”. Soldati, banditi o cow boys che fossero. Perché vivevano nei tee pee lungo il torrente anziché nelle case scricchiolanti, perché erano nudi e non coperti da pastrani che puzzavano a vederli, perché l’aria del villaggio pellerossa era sempre più sana che non quella fumosa del saloon. Probabilmente il me bambino conteneva già molti dei pezzi di quel che oggi è l’adulto. Uno che sta meglio vicino ai ruscelli, è più a suo agio in maglietta che non in cravatta, è allergico ai locali e appena può fugge dal casino. Il bimbo di città di allora vive oggi tra i boschi dove la sera vengono a trovarlo lupi e cinghiali.

C’era una volta quel

Quello spigolo iberico dove l’ultimo lembo di Europa guarda in faccia l’Africa, sapendo di averle rubato un pezzo di landa desolata, contiene ancora molto di quei film. Cammini nel deserto di Tabernas tra le location ascoltando le musiche di Morricone. Piangi dalla bellezza. Dall’emozione. Alcune case le hanno tenute in piedi lasciandole invecchiare, altre le hanno ricostruite, rendendole un po’ troppo pulite. Ci fanno anche delle rievocazioni, ma troppo Gardaland per essere davvero western. Mika è lì, nella finzione, ma tu vai oltre.

Se ti procuri una brava guida, la cosa cambia. Jorge Rubio ha lasciato la strada per portarmi nell’alveo di un torrente in secca. L’ho misurato tutto a testate incastrato tra panca e tetto della vecchia Nissan della Guardia Civil. Avrei dovuto capirlo prima di salirci che la scritta Rolling Almeria non era un’insegna ma una dichiarazione di intenti. Finite le rollate si è iniziato a camminare, tra radi cespugli con i pali del telegrafo che punteggiavano la prateria tracciando una linea verso dei ruderi. Il set di Sergio Leone. L’Hotel Coyote con le finestre a incorniciare il deserto, la casa dello sceriffo con la prigione, perfino la forca con la corda che ondeggia nel vento secco. 

Noi da soli, sul set spento dal 1966.  Loro giravano e io nascevo, vedi che coincidenza. Ma non è solo West, il deserto di Almeria. Jorge era ben attrezzato e mi ha mostrato come da lì fosse passato il Patton Generale d’Acciaio scritto da un giovane F.F. Coppola, con una fiumana di carri armati prestata dall’esercito spagnolo. È anche il posto dove Harrison Ford e Sean Connery hanno duellato con il tank nazista nella saga di Indiana Jones.

È passata di qui anche la più costosa delle serie, la più famosa, la più sopravvalutata. Il regno dei Dothraki in Game of Thrones era a Tabernas. Nel deserto sono spuntati due cavalli rampanti, uno di fronte all’altro a formare un maestoso arco. Ambientazione pomposa anche alla rocca di Almeria, con le scene della reggia del sud affacciate su un giardino fatto di cascatelle che ricordano il passato arabo e il culto di chi aveva già capito quanto l’acqua fosse preziosa.

C’era una volta quel

Potenza della fantasia e della pioggia di milioni rovesciati dalla post produzione della HBO se il deserto di Tabernas continua a entrare nelle nostre case. Chissà cosa direbbe oggi Sergio Leone di tutto questo, lui che per risparmiare scelse di portare il West – e me – in quest’angolo di mondo rendendolo più vero dell’originale.

Sei mai stato all’ hotel coyote?

Sei mai stato all’hotel Coyote?

Stefano Paolo Giussani

Sei mai stato nel West? 
Non ti sto chiedendo se hai mai visitato Arizona, Texas o Wyoming. Posti con le strade che tirano dritte come un colpo di fucile e l’asfalto bollente non conosce ristoro per centinaia di miglia, dove la sensazione di solitudine è attenuata – o accentuata, fai tu – solo dal volteggio di un condor sulla tua testa o dal tintinnio di un serpente a sonagli ai tuoi piedi. 
Quello è sì il West, ma oggi. 
Ti parlo invece del West che c’è nella testa di quando eravamo bambini, davanti a uno schermo di cinema largo come tutta la parete dell’oratorio, che mi sembrava ancora più grande un po’ perché ero piccolo io e un po’ perché non avevo ancora iniziato a viaggiare. 

Mi lasciavo ingoiare dalla panca in legno col sedile basculante che era duro e mi costringeva ad alzare la testa per guardare. Dovevo tenere il collo un po’ piegato all’indietro e alla fine mi sentivo pure indolenzito, come se avessi cavalcato anche io nello schermo tra quelle montagne. 

Oggi al cinema il film ce l’hai di fronte. 
Lì eri dentro. 
C’eri quando Fonda e Bronson si guardavano in faccia per minuti infiniti prima dell’ultima pallottola, eri al fianco di Eastwood quella volta che diventò giustiziere dell’avamposto di San Miguel, c’eri anche quando la dinamite fece saltare i binari sotto la vaporiera costretta a inginocchiarsi nella prateria mentre partiva l’assalto al treno tra urla e spari. 

Sono sempre stato più attratto dagli indiani che non dagli altri. Soldati, banditi o cow boys che fossero. Perché vivevano nei tee pee lungo il torrente anziché nelle case scricchiolanti, perché erano nudi e non coperti da pastrani che puzzavano a vederli, perché l’aria del villaggio pellerossa era sempre più sana che non quella fumosa del saloon. Probabilmente il me bambino conteneva già molti dei pezzi di quel che sono oggi. Sono uno che sta meglio vicino ai ruscelli, è più a suo agio nudo che vestito, è allergico ai locali e appena può fugge dal casino. 

C’era una volta «quel» West, dunque. 
Oggi, trascorse cinquanta primavere, so che quello che vedevo non era neppure il West ma la provincia di Almerìa, nel sud della Spagna. Quello spigolo iberico dove l’ultimo lembo di Europa guarda in faccia l’Africa, sapendo di averle rubato un pezzo di landa desolata, il Deserto de Tabernas. È lì che ci sono ancora le location dei film. Alcune le hanno tenute in piedi lasciandole invecchiare, altre le hanno ricostruite, rendendole un po’ troppo pulite. Ci fanno anche delle rievocazioni, ma troppo Gardaland per essere davvero western. 

Però, se ti procuri una brava guida, la cosa cambia. 
Jorge Rubio ha lasciato la strada per portarci nell’alveo di un torrente in secca. L’ho misurato tutto a testate incastrato tra panca e tetto della vecchia Nissan della Guardia Civil. Avrei dovuto capirlo prima di salirci che la scritta Rolling Almeria non era una pubblicità ma una dichiarazione di intenti. Finite le rollate si è iniziato a camminare, tra radi cespugli con i pali del telegrafo che puntavano a dei ruderi. 

Eccolo, il set. 
Quello di Sergio Leone. 

L’Hotel Coyote con le finestre a incorniciare il deserto, la casa dello sceriffo con la prigione, perfino la forca con la corda che ondeggia nel vento secco. 
Noi da soli, sul set spento dal 1966. 
Loro giravano e io nascevo, vedi che coincidenza. 
Non ce l’ho fatta e ho ceduto alla tecnologia. 
Ho acceso Spotify e via, sulle note di Morricone. 
Con gli occhi lucidi, per essere nel mio West, quello vero. 
A un certo punto, Jorge ha acceso il portatile e mi ha travolto con altre storie. Alcune mai sentite, altre che ricordo perfettamente, tra le mie preferite. Così ho scoperto che da lì è passato il Patton Generale d’Acciaio scritto da un giovane F.F. Coppola, con una fiumana di carri armati prestata dall’esercito spagnolo. È anche il posto dove Harrison Ford e Sean Connery hanno duellato con un tank nazista. Lungo la statale c’è l’edificio del Black Museum, puntata chiave della serie di Black Mirror. E a proposito di serie, è passata di qui anche l’ultima, la più costosa, la più sopravvalutata, Game of Thrones. Il regno dei Dothraki era qui, potenza della fantasia e della cascata di milioni rovesciati dalla post produzione, nel Deserto de Tabernas sono spuntati due cavalli rampanti, uno di fronte all’altro a formare un maestoso arco. 

Chissà cosa direbbe oggi Sergio Leone di tutto questo, lui che per risparmiare scelse di portare il West – e me – in quest’angolo di mondo rendendolo più vero dell’originale.

Questo post è stato pubblicato nella newsletter Futura del Corriere della Sera. L’illustrazione è di Riccardo Cusimano.

Marche, vai a meditare sull’infinito

La colpa, o il merito, sarà anche di Leopardi, ma ogni volta che mi capita di andare nelle Marche ci casco. Ogni siepe, ma aggiungo ogni albero o ogni muro in mattoni e pietra, diventa l’appoggio per il mio infinito. Non è un caso che da ogni rilievo di questa regione si veda la distesa azzurra dell’Adriatico. Allora, approfittando dell’estate agli sgoccioli, provo a suggerirvi un itinerario qui  tra natura e spirito.

Lasciando Ancona, puntate dritti nell’entroterra e arrivate a Cingoli, tanto per rendervi conto da uno dei punti più panoramici di come le Marche siano modellate. Vi sembrerà di cavalcare la cresta di una mare di quiete onde verdi. Qui non mancate di godervi la tela di Lorenzo Lotto per la quale Napolitano in persona chiamò il sindaco pregandolo di prestarla alla mostra delle scuderie del Quirinale. “Senza la vostra opera – disse il Presidente – la mostra non sarebbe la stessa”. La Madonna del Rosario vi aspetta nella chiesa di San Domenico e il vostro sarà un incontro estraneo alle masse. Voi e Lotto, soli, non capita tutti i giorni. Apprezzerete anche l’avveniristico sistema di illuminazione offerto da una ditta leader italiana.

Su stradine solitarie, scendete poi verso la provincia di Macerata. Qui perdetevi tra San Severino Marche e Camerino. Castello sulla vetta del colle, piazza ellittica a valle, godevolissimo museo e l’incanto di San Lorenzo in Doliolo per il primo borgo. Brio universitario, il delizioso teatro Marchetti, il gioco di portici del palazzo ducale affacciato sui giardini per il secondo. Proseguendo in direzione di Tolentino, l’abbazia di Chiaravalle di Fiastra è circondata dalla omonima riserva e offre anche ospitalità.

Tornando verso la costa, sarebbe un peccato non fermarsi a Montecosaro. I motivi sono due. La chiesa di Santa Maria a Pie’ di Chienti è un gioiello romanico a due piani sovrapposti, originalissima nelle sue forme. Il paese a monte è un abbraccio di case dal quale la vista spazia tra l’Appennino e il Conero. Il Museo del cinema a pennello a ridosso della porta che immette nel borgo è l’occasione per toccare con mano cimeli del grande schermo, italiano e non. Mi sono lasciato incantare dalla bombetta di Totò e dal manifesto originale di C’era una volta il west accompagnato dallo spartito autografo di Morricone.

Rientrando in direzione di Ancona, la tappa d’obbligo è nella Basilica Pontificia di Loreto. Qui tutto ricorda il Vaticano, compresa la loggia dalla quale di affacciò San Giovanni XXIII inaugurando la stagione dei Papi viaggiatori. Da qualche mese è agibile il percorso degli spalti, unico in Italia per raccontare le dinamiche difensive di una basilica fortificata. Se a Loreto tutto parla di maestosità, una sosta a Portonovo riporta all’essenzialità romanica, con i sassi bianchi cullati dal rumore delle onde.

Il vantaggio di un percorso del genere è quello di poter essere praticato in tutte le stagioni. Mi piace anche perché trovo sempre una pensione o un b&b pronti a calarmi nell’altra dimensione del sentimento marchigiano, quella che soddisfa il palato con i suoi gusti indimenticabili. Che la via per conciliare spirito e carne passi proprio da qui?

Questo articolo è pubblicato anche sull’Huffington Post.