Sei mai stato all’hotel Coyote?
Stefano Paolo Giussani
Sei mai stato nel West?
Non ti sto chiedendo se hai mai visitato Arizona, Texas o Wyoming. Posti con le strade che tirano dritte come un colpo di fucile e l’asfalto bollente non conosce ristoro per centinaia di miglia, dove la sensazione di solitudine è attenuata – o accentuata, fai tu – solo dal volteggio di un condor sulla tua testa o dal tintinnio di un serpente a sonagli ai tuoi piedi.
Quello è sì il West, ma oggi.
Ti parlo invece del West che c’è nella testa di quando eravamo bambini, davanti a uno schermo di cinema largo come tutta la parete dell’oratorio, che mi sembrava ancora più grande un po’ perché ero piccolo io e un po’ perché non avevo ancora iniziato a viaggiare.
Mi lasciavo ingoiare dalla panca in legno col sedile basculante che era duro e mi costringeva ad alzare la testa per guardare. Dovevo tenere il collo un po’ piegato all’indietro e alla fine mi sentivo pure indolenzito, come se avessi cavalcato anche io nello schermo tra quelle montagne.
Oggi al cinema il film ce l’hai di fronte.
Lì eri dentro.
C’eri quando Fonda e Bronson si guardavano in faccia per minuti infiniti prima dell’ultima pallottola, eri al fianco di Eastwood quella volta che diventò giustiziere dell’avamposto di San Miguel, c’eri anche quando la dinamite fece saltare i binari sotto la vaporiera costretta a inginocchiarsi nella prateria mentre partiva l’assalto al treno tra urla e spari.
Sono sempre stato più attratto dagli indiani che non dagli altri. Soldati, banditi o cow boys che fossero. Perché vivevano nei tee pee lungo il torrente anziché nelle case scricchiolanti, perché erano nudi e non coperti da pastrani che puzzavano a vederli, perché l’aria del villaggio pellerossa era sempre più sana che non quella fumosa del saloon. Probabilmente il me bambino conteneva già molti dei pezzi di quel che sono oggi. Sono uno che sta meglio vicino ai ruscelli, è più a suo agio nudo che vestito, è allergico ai locali e appena può fugge dal casino.
C’era una volta «quel» West, dunque.
Oggi, trascorse cinquanta primavere, so che quello che vedevo non era neppure il West ma la provincia di Almerìa, nel sud della Spagna. Quello spigolo iberico dove l’ultimo lembo di Europa guarda in faccia l’Africa, sapendo di averle rubato un pezzo di landa desolata, il Deserto de Tabernas. È lì che ci sono ancora le location dei film. Alcune le hanno tenute in piedi lasciandole invecchiare, altre le hanno ricostruite, rendendole un po’ troppo pulite. Ci fanno anche delle rievocazioni, ma troppo Gardaland per essere davvero western.
Però, se ti procuri una brava guida, la cosa cambia.
Jorge Rubio ha lasciato la strada per portarci nell’alveo di un torrente in secca. L’ho misurato tutto a testate incastrato tra panca e tetto della vecchia Nissan della Guardia Civil. Avrei dovuto capirlo prima di salirci che la scritta Rolling Almeria non era una pubblicità ma una dichiarazione di intenti. Finite le rollate si è iniziato a camminare, tra radi cespugli con i pali del telegrafo che puntavano a dei ruderi.
Eccolo, il set.
Quello di Sergio Leone.
L’Hotel Coyote con le finestre a incorniciare il deserto, la casa dello sceriffo con la prigione, perfino la forca con la corda che ondeggia nel vento secco.
Noi da soli, sul set spento dal 1966.
Loro giravano e io nascevo, vedi che coincidenza.
Non ce l’ho fatta e ho ceduto alla tecnologia.
Ho acceso Spotify e via, sulle note di Morricone.
Con gli occhi lucidi, per essere nel mio West, quello vero.
A un certo punto, Jorge ha acceso il portatile e mi ha travolto con altre storie. Alcune mai sentite, altre che ricordo perfettamente, tra le mie preferite. Così ho scoperto che da lì è passato il Patton Generale d’Acciaio scritto da un giovane F.F. Coppola, con una fiumana di carri armati prestata dall’esercito spagnolo. È anche il posto dove Harrison Ford e Sean Connery hanno duellato con un tank nazista. Lungo la statale c’è l’edificio del Black Museum, puntata chiave della serie di Black Mirror. E a proposito di serie, è passata di qui anche l’ultima, la più costosa, la più sopravvalutata, Game of Thrones. Il regno dei Dothraki era qui, potenza della fantasia e della cascata di milioni rovesciati dalla post produzione, nel Deserto de Tabernas sono spuntati due cavalli rampanti, uno di fronte all’altro a formare un maestoso arco.
Chissà cosa direbbe oggi Sergio Leone di tutto questo, lui che per risparmiare scelse di portare il West – e me – in quest’angolo di mondo rendendolo più vero dell’originale.
Questo post è stato pubblicato nella newsletter Futura del Corriere della Sera. L’illustrazione è di Riccardo Cusimano.