Il sole non è ancora sorto quando la comitiva di dieci persone e due guide è incolonnata appesa a una corda sotto un cielo che sta virando dal carbone al cobalto.
Ogni passo è un’impresa, ogni gesto uno sforzo, le maschere scandiscono il respiro. Basta un niente, ma davvero un niente come scivolare, cadere sulle proprie ginocchia, inciampare in una corda, per creare l’incidente che mette a repentaglio la vita del gruppo e delle guide. Lo illustra bene un filmato di National Geographic di una gita finita in tragedia. Ma l’Everest non è da gita, l’Everest non è per tutti. Eppure una logica di sfruttamento commerciale vuole farlo diventare, portando in vetta comitiva di gente impreparata. Non bastano pochi giorni di acclimatamento per fare di chiunque un alpinista. Non basta una buona attrezzatura per prevenire l’assideramento.
Analogamente, una certa logica commerciale, se vogliamo ancora più sporca, fa in modo che i grandi alpinisti sponsorizzati da altrettanto grandi marchi diffondano a loro volta il nome delle montagne più alte del mondo. Il denominatore comune di tutti è poter dire “siamo stati lì”, vale per l’alpinista, per il suo sponsor, per i partecipanti della gita. Ecco allora il conflitto. Gli sherpa vedono negli alpinisti e nelle loro spedizioni milionarie un ostacolo al loro pane quotidiano. Gli alpinisti vedono negli sherpa e negli improvvisati gitanti un fastidio alla loro impresa. In qualche punto, lassù, il contrasto: dove non c’è lo spazio per un passo fuori posto non c’è spazio nemmeno per la lucidità di una discussione in caso di contatto. È quello che è successo. Gli sherpa attaccano. L’alpinista, nel caso Simone Moro, si difende.
Se anche è andata così non c’è un torto o una ragione. Dovrebbe esserci solo il buon senso. Ma è il presupposto al buon senso che manca: è davvero utile all’economia locale portare lassù una comitiva improvvisata? O davvero utile per il noto alpinista e il suo sponsor milionario cimentarsi nell’ennesima impresa sulla vetta? Tra le tante alternative, un uomo di buon senso non credo risponderebbe affermativamente a entrambe le domande. Simone Moro è abbastanza intelligente per trovare modo di dare eco alla propria capacità. Gli sherpa potrebbero essere stimolati a promuovere forme di turismo di scoperta che non preveda tornelli da metropolitana ai campi base. Ci sarà tempo per rifletterci a valle?
Questo post è stato pubblicato anche sull’HuffingtonPost.